Un cessate il fuoco in Libano e ordigni a Kiev. Il lascito di Biden è in realtà il campo di gioco del suo successore. Perché in Medio Oriente la partita è aperta fino a gennaio

Mentre in Ucraina la situazione continua a peggiorare, in Libano sembra che si sia ormai arrivati alla definizione di una tregua temporanea. In un drammatico alternarsi di notizie e improvvisi colpi di scena i due conflitti continuano a svilupparsi intorno a una costante: l’attesa per l’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. Fino alla settimana scorsa gli analisti e gli esperti di Medio Oriente concordavano sul fatto che il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, volesse offrire a Trump una sorta di regalo di inizio mandato, acconsentendo a quel cessate il fuoco che Joe Biden aveva cercato di concludere per mesi. Ora, tuttavia, l’attesa potrebbe essere finita in quanto sia Tel Aviv sia ciò che resta dei vertici di Hezbollah avrebbero accettato le condizioni per interrompere le ostilità. Lo ha spiegato chiaramente nel corso della kermesse Dialoghi mediterranei, organizzata dall’Ispi, il ministro degli Affari Esteri libanese, Abdallah Bou Habib. «Siamo speranzosi sulla possibilità che un cessate il fuoco venga raggiunto entro stasera [martedì 26, ndr], ma non posso dire di più perché l'esperienza della comunità internazionale su Gaza ci dice che non possiamo mai essere certi che le cose andranno per il verso giusto». Bou Habib ha ricordato che l’accordo si basa sulla risoluzione 1701 dell’Onu, che implica il ritiro completo di Israele dal territorio libanese e lo spostamento nel Sud del Paese – nell’area attualmente controllata da Hezbollah oltre il fiume Litani – dell’esercito di Beirut, il quale avrà come obiettivo quello di «prendere il pieno controllo dell’area». Per garantire una tregua che si annuncia giù fragilissima, le Nazioni Unite hanno deciso di potenziare la missione dei caschi blu di Unifil con 5mila uomini, che avranno compiti più attivi del semplice monitoraggio attuale. Il termine fissato per l’accordo è di 60 giorni, il che significa fino a fine gennaio. «Non penso che Netanyahu voglia fare questo piacere al presidente Biden, ma piuttosto al presidente eletto Trump che entrerà in carica proprio a gennaio», ha ricordato Bou Habib. Al momento il comitato che dovrà controllare che non si violino i termini dell’accordo sarà composto da Israele, dal Libano e da Unifil stessa. A far da paciere gli Stati Uniti e, forse ma con un ruolo minore, la Francia. In un secondo momento potrebbero entrare nel gruppo di monitoraggio anche altri Paesi europei e arabi.

 

Il ruolo degli Usa è fondamentale non soltanto per il legame con Israele, ma per l’importante presenza in Libano. Le forze armate libanesi sono infatti finanziate in larga parte proprio da Washington, che fornisce al governo di Beirut anche molti aiuti economici che finora gli hanno permesso di evitare la bancarotta. Nel prossimo futuro, quando la tregua diventerà effettiva, vaste aree del Libano saranno da ricostruire e le aziende statunitensi stanno già avanzando richieste al governo locale. «Abbiamo più di 50-60 mila case distrutte tra il Sud, la valle della Bekaa e Beirut; 1,5 milioni di sfollati libanesi che vivono nelle scuole e il sistema educativo sospeso per fare spazio ai rifugiati», ha spiegato il ministro degli Esteri. Del resto, la paura di un imprevisto che faccia saltare il tavolo non è affatto infondata. Fino all’ultimo momento c’è stata l’opposizione dei ministri della destra più intransigente che hanno cercato di opporsi alla tregua considerandola «una resa». Questi politici hanno anche fomentato alcune proteste degli sfollati del Nord di Israele che si sono opposti al progetto di cessate il fuoco per il timore di essere attaccati nuovamente in futuro. Sono oltre 60mila gli sfollati interni israeliani che hanno dovuto lasciare le proprie case dopo che, alla fine dell’estate, il conflitto tra le forze armate dello Stato ebraico e il partito sciita libanese si è inasprito. È a loro che Netanyahu ha promesso un ritorno trionfale a casa e la fine delle preoccupazioni di sicurezza. Ma, nonostante i bombardamenti devastanti che hanno raso al suolo intere zone della Dahieh, il sobborgo meridionale di Beirut considerato «la roccaforte di Hezbollah», i miliziani sciiti non hanno mai interrotto il lancio di razzi verso gli insediamenti israeliani a ridosso del confine.

 

In seguito all’emissione del mandato d’arresto internazionale per «crimini di guerra e contro l’umanità» ai danni di Netanyahu e del suo ex-ministro della Difesa Yoav Gallant, la situazione è cambiata. Da Tel Aviv ostentano sicurezza e accusano la Corte Penale Internazionale di «anti-semitismo», stigma che ormai viene affibbiato a chiunque non sia d’accordo sulle politiche militari dell’attuale governo israeliano. Ma la questione è molto seria per i leader israeliani, che hanno atteso la riunione dei membri del G7 a Fiuggi per capire quale fosse la risposta della comunità internazionale. Per ora sembra che gli alleati vogliano continuare a sostenere la linea israeliana anche contro la Cpi, ma il dato significativo è che la retorica del «diritto all’auto-difesa», che per oltre un anno non si è infranta di fronte ai quasi 50mila morti gazawi e libanesi, è stata messa in discussione dal più importante tribunale al mondo. Chi ha dichiarato «totale disinteresse» per le decisioni dell’Aja è un altro ricercato di prim’ordine, il presidente russo Vladimir Putin

 

In Ucraina l’attesa per l’insediamento di Trump si è trasformata in un’escalation tanto inaspettata quanto pericolosa. Da quando il presidente uscente Biden ha concesso l’autorizzazione all’uso dei missili a lungo raggio forniti dagli Usa all’interno del territorio russo, la tensione è aumentata di giorno in giorno. Prima è stata la volta delle mine-antiuomo, che il Pentagono ha deciso di inviare a Kiev come mossa disperata per fermare l’avanzata russa nell’Est, in un contesto in cui i ritardi nella costruzione di trincee e fortificazioni potrebbero costare molto caro ai difensori. In spregio alla Convenzione di Ottawa che mette al bando la produzione, la commercializzazione e l’uso delle mine, Washington ha valutato che nel poco tempo rimasto all’attuale amministrazione le mine saranno un lascito significativo per le forze armate ucraine. L’importante è tenere le posizioni finché il tycoon non farà il suo ingresso nello studio ovale e tenterà, come ha più volte promesso durante la campagna elettorale, di «chiudere la guerra in 24 ore». Ma il Cremlino stavolta non è stato a guardare. Putin ha cambiato la «dottrina nucleare» del suo imponente arsenale atomico, inserendo la clausola che d’ora in poi si potranno usare testate nucleari anche contro Stati che ne sono sprovvisti ma che sono supportati da altri Stati che le detengono. Poi, a riprova del fatto che non si trattasse di una mossa solo retorica, gli artiglieri russi hanno lanciato su Dnipro un nuovo missile balistico ipersonico a medio raggio, l’Oreshnik. nDa quando nel 2018 Donald Trump aveva deciso di uscire unilateralmente dal Trattato Inf (Intermediate-range nuclear forces treaty, Trattato sulle testate nucleari a medio raggio) che imponeva al presidente degli Usa e a quello russo di dismettere gradualmente i missili atomici a medio raggio posizionati sul suolo europeo e di controllarsi a vicenda, la minaccia dei cosiddetti euromissili era caduta nel dimenticatoio. Con la comparsa dell’Oreshnik, invece, Mosca ha voluto dimostrare praticamente che, se la situazione lo richiedesse, è pronta all’escalation con mezzi adeguati. È probabilmente vero che si tratta solo di un prototipo e che la minaccia per l’Europa non è imminente, ma il primo passo è stato compiuto.