Medio Oriente in Fiamme

«Noi, ex combattenti di Israele e Palestina, diventati pacifisti per dire basta al ciclo di violenza»

di Alice Scialoja   23 aprile 2024

  • linkedintwitterfacebook

«Abbiamo visto la violenza e il prezzo che si paga; l’abbiamo abbandonata perché non porta a niente». Dialogo con Elie Avidor e Sulaiman Khatib, che oggi militano in un'associazione contro la guerra

Disturbiamo l’ordine, la pace del sistema che è andato avanti in questi anni, resistiamo. In tutti i modi possibili: manifestiamo, aiutiamo la gente. C’è molto da fare in Cisgiordania dove i coloni aggrediscono le comunità palestinesi; li aiutiamo a ricostruire le case distrutte, accompagniamo i pastori e stiamo con loro. Combattiamo l’occupazione in modo non violento». Elie Avidor, ebreo israeliano, 72 anni, spiega così le attività di Combatants For Peace, l’associazione pacifista a doppia conduzione, israeliana e palestinese, di cui fa parte. È in Italia assieme a Sulaiman Khatib, fondatore di Combatants, palestinese, 50 anni. Sono amici. Ospiti a Fano dell’iniziativa Circonomia per raccontare il proprio impegno e le ragioni di una trasformazione radicale. «L’associazione nasce da ex combattenti di entrambi i lati: i palestinesi erano freedom fighter, gli israeliani soldati dell’esercito», prosegue Avidor. «Sulaiman si è fatto dieci anni di galera, io la guerra sulle alture del Golan. Abbiamo visto la violenza e il prezzo che si paga; l’abbiamo abbandonata perché non porta a niente. Siamo in un ciclo di violenza che va avanti da anni, a vuoto». Kathib racconta di aver imparato in carcere il potere dell’azione non violenta, con uno sciopero della fame. Cfp è stata fondata da ex combattenti ma ha poi aperto le porte a tutti: «I nostri due direttori, per esempio, non hanno mai preso le armi né sono stati in prigione e al momento sono donne», precisa.

 

Ma ha senso il pacifismo con la guerra a Gaza?
K: «Ora la voce della violenza è più forte e può essere difficile convincere le persone che il pacifismo funzioni. Ma io credo di sì. Strategicamente. Per i suoi valori morali e perché consente partnership e alleanze. Siamo a un bivio: quella a Gaza è una guerra di coscienza che va oltre la questione palestinese. Se gli attivisti di tante organizzazioni del mondo si unissero in un movimento di liberazione collettiva, per una rivoluzione globale, funzionerebbe».

 

ELIE AVIDOR

 

Alla luce delle vostre storie, è più difficile prendere o deporre le armi?
K: «Non stiamo parlando di due parti uguali: i palestinesi non hanno uno Stato e un esercito, mentre gli israeliani a 18 anni entrano nell’esercito. Gli israeliani sono quella forte, che occupa. C’è la guerra ma non credo che le persone nascano violente. In ogni comunità, possiamo esserlo o no. Serve trovare un’alternativa per cui la non violenza attragga i giovani più della violenza, e non è facile. Storicamente, però, nel mondo accademico, nella ricerca, è stata la non violenza a cambiare di più le cose. Dobbiamo uscire da questo pensiero – o voi o noi – e trovare una narrazione diversa per cui le persone sentano che i loro bisogni si possono incontrare, che è possibile vivere liberi sulla nostra terra e dividere le risorse».

A: «Deporre le armi è difficile perché cresci con una narrazione. Sono nato nel ’51, tre anni dopo la costituzione di Israele, e durante la mia infanzia e adolescenza c’è stata la guerra del ’56, quella dei 6 giorni nel ’67, quella del ’73. Siamo cresciuti con l’idea di essere soli e doverci proteggere; entrare nell’esercito era scontato, poi cercare di essere il migliore nelle unità di élite. Abbandonare questa mentalità è estremamente difficile. Finché hai paura, pensi di dover essere il più forte, e hai paura dell’altro perché non lo conosci, non sei aperto al suo racconto. Oltre alla tua, c’è un’altra storia: il punto è saper ascoltare l’altra parte. Noi di Cfp parliamo di transizione, della trasformazione del pensiero per diventare non violenti».

 

La devastazione attuale può aiutare questa trasformazione o no?
A: «Siamo così in basso che potrebbe forse uscirne qualcosa di buono. Penso allo Yom Kippur nel ’73, per esempio, che è stato uno shock enorme per Israele. Nel ’67 abbiamo vinto e detto che non c’era nessuno dall’altra parte con cui parlare per fare la pace. Poi è arrivata la guerra del ’73, Israele è stato sconfitto duramente e abbiamo fatto pace con l’Egitto, costretti dagli americani naturalmente. Quindi spero davvero che ci si apra all’ascolto dell’altra parte, con l’aiuto di altri poteri, per produrre un grande cambiamento».

 

La pressione internazionale oggi è sufficiente?
K: «No. Gli americani hanno le chiavi di Tel Aviv, del decision-making. Ora, come nel ’73. Anche l’Ue e le Nazioni Unite potrebbero fare di più».

 

Siamo anche di fronte a una guerra per il controllo dei giacimenti di gas nel mare di Gaza?
K: «Certo, è una parte importante di questa guerra. Ci sono miliardi di dollari di giacimenti di gas in quel mare. C’è chi pensa che sia una guerra di religione ma è economica e di controllo».
A: «Europei e americani potrebbero davvero fare di più per trovare una soluzione che funzioni. Anche perché il gas sarà poi venduto da Israele all’Europa; anche chi compra ha voce in capitolo sulle risorse».

 

SULAIMAN KHATIB

 

Come immaginate che finirà a Gaza?
K: «C’è un estremista a capo del governo israeliano e alcuni estremisti dal lato palestinese, certi leader di Hamas e altri, che non vogliono un futuro pacifico per la regione ma combattere per sempre. È la loro agenda, non la nascondono. La guerra dà l’opportunità di dire che non c’è nessun interlocutore. E i coloni ne approfittano per prendere terre in Cisgiordania; lo facevano anche prima ma l’occasione è buona per conquistarne di più. Ci sono, poi, altre persone, globalmente e localmente, che vedono il momento come un’opportunità per trovare una soluzione politica reale, che vada oltre la gestione dei conflitti. Ci sono dinamiche diverse e c’è confusione. Gli americani, che sono fondamentali, non sono in sintonia con Netanyahu al momento, anche se inviano armi a Israele. Difficile capire dove si stia andando, cosa decideranno i Paesi arabi, europei e gli Usa. Ma so per certo che non possiamo tornare indietro a prima di questa guerra. Deve arrivare qualcosa di nuovo».

 

La guerra potrebbe finire senza nessun diritto per i palestinesi a Gaza?
A: «Vedo la fine della guerra a Gaza con più diritti per i palestinesi, almeno lo spero. La Cisgiordania non accetterà nessun accordo senza Gaza e la storia insegna che da lì nessuno se ne andrà».
K: «È possibile fare una pace regionale. Ma non si farà da sé, dobbiamo lottare e agire in tutto il mondo affinché avvenga subito. Occorre che i Paesi europei vogliano servire la causa regionale, non solo perché possono, ma perché è anche nell’interesse del Nord del Mediterraneo avere stabilità, e cambiare il discorso per tutti».

 

Che succede in Cisgiordania?
A: «Cresce la violenza con l’obiettivo di prendere tutte le terre e si restringono le aree di pascolo. Cerchiamo di opporci il più possibile. Purtroppo il governo incoraggia questa situazione; le nostre denunce cadono nel vuoto perché il ministero dell’Interno non dà loro seguito. È un governo estremista, mentre il popolo israeliano avrebbe bisogno di speranza e di una visione che prospetti un futuro più sicuro. Molti lo stanno chiedendo ma al primo ministro non importa. Non vincerà. Israele ha perso questa guerra dal primo giorno».