Intervista

«Non fermatevi ai sondaggi: Joe Biden è in vantaggio e può battere Donald Trump»

di Manuela Cavalieri e Donatella Mulvoni   16 maggio 2024

  • linkedintwitterfacebook

Allan Lichtman ha sempre previsto il risultato delle elezioni presidenziali. E spiega con il suo metodo perché, a dispetto delle rilevazioni, il presidente Usa è in vantaggio

Quando nel 2016 Donald Trump umiliò Hillary Clinton con il più imprevedibile dei trionfi elettorali, soltanto un uomo a Washington D.C. poté affermare «ve lo avevo detto». L’unico ad aver previsto la vittoria dell’imprenditore, sebbene ogni singolo sondaggio nazionale avesse già aperto alla democratica le porte della Casa Bianca. Allan Lichtman, docente dell’American University, da quarant’anni è considerato il Nostradamus della politica statunitense; ma il professore è in realtà uno storico assai rigoroso. Dal 1984 ha azzeccato 9 Presidenziali su 10, anche se lui parla di en plein, perché reputa quella del 2000 un’elezione rubata da George W. Bush ai danni di Al Gore (stabilita dopo mesi di ricorsi e una sentenza della Corte suprema, con un margine di 537 voti in Florida).

 

Mentre in America la campagna elettorale entra nel vivo, il professor Lichtman lancia il primo pronostico della stagione: Joe Biden ha buone chance di battere Donald Trump a novembre. Questo nonostante al momento le rilevazioni diano Trump in vantaggio con il 41,7% contro il 40,6%; nonostante la popolarità del presidente in carica si fermi al 38%; e nonostante non ci sia camera caritatis democratica in cui non si borbotti d’età avanzata, amnesie e gaffe. Nei prossimi sei mesi, Biden dovrà però tenere d’occhio alcune variabili: la tenuta del terzo sfidante Robert F. Kennedy Jr., le proteste in corso e la politica estera.

 

«I sondaggi sono istantanee, non possono anticipare quello che accadrà. Il mio metodo, invece, funziona in maniera diversa, valutando le performance del partito alla Casa Bianca», dice il professore quando lo raggiungiamo. A contare, insomma, sarà la governance, non una campagna elettorale a effetti speciali perché le presidenziali altro non sono se non un referendum sul partito al potere. Lichtman ha ideato le leggendarie “Tredici chiavi per la Casa Bianca”, una sorta di test vero/falso. Il sistema, analizza fattori come la competizione in fase di nomination, il carisma del candidato in carica e dello sfidante, il rilievo degli indipendenti, lo stato dell’economia, le riforme attuate, i successi militari, gli affari esteri, la stabilità sociale nel Paese ed eventuali scandali in corso. Se il partito al potere perde almeno sei chiavi, non c’è speranza, occorrerà prepararsi a un cambio di guardia.

 

Allan Lichtman

 

Perché è convinto che Biden potrebbe spuntarla?
«Non sono un sensitivo e neppure il presidente della Camera Mike Johnson che sostiene che l’Onnipotente gli parli. Le mie “chiavi” si basano sulla storia. Biden ne ha in deficit solo due al momento, ovvero quella del “mandato” – che si basa sulle elezioni di midterm in cui i democratici hanno perso seggi – e quella del carisma personale, non essendo un gigante come Reagan o Kennedy. Il mio pronostico definitivo, però, arriverà ad agosto perché ci sono quattro voci traballanti: il peso del terzo partito, i disordini sociali (con le proteste per la guerra a Gaza che montano nei campus universitari), il fallimento o il successo militare e in politica estera (con le guerre in corso in Medio Oriente e in Ucraina). Biden dovrebbe perderle tutte e quattro per prevedere una sconfitta. Possibile, ma improbabile».

 

I sondaggi stanno quindi sbagliando?
«Nel 2016, sottovalutarono le forze repubblicane. Ora sembra che stiano sottovalutando quelle democratiche. In base alle elezioni speciali del 2023 e del 2024, i dem stanno votando molto di più rispetto a quanto rilevano i sondaggi».

 

Quali variabili potrebbero influenzare la corsa di entrambi?
«È possibile che ci sia un evento così cataclismatico che agisca al di fuori del contesto delle chiavi. Ad esempio, se Donald Trump dovesse essere condannato, ciò potrebbe influenzare il fattore “terzo partito”. Potrebbe poi accadere qualcosa di straordinario come una recessione economica».

 

Il suo sistema ignora le analisi tradizionali basate su Stati in bilico e gruppi demografici.
«Ho un approccio diverso. Non valutiamo la sfida Biden contro Trump. La mia analisi si basa sull’idea fondamentale che le presidenziali americane siano essenzialmente un voto al rialzo o al ribasso del partito attualmente alla Casa Bianca. Si tratta quindi di un sistema robusto basato sull’analisi di oltre 160 anni di politica americana sin dall’elezione di Abe Lincoln. All’inizio sono stato criticato dai sondaggisti perché avevo commesso il più grave dei peccati, quello della soggettività, visto che non tutte le mie chiavi permettono una lettura netta. La verità è che nelle elezioni abbiamo a che fare con persone. E gli storici usano sempre il giudizio nell’analizzare i sistemi umani. Con il tempo le mie “chiavi per la Casa Bianca” sono diventate l’oggetto più richiesto nel campo dei pronostici».

 

L’idea di questo modello è stata concepita grazie alla sua collaborazione con un sismologo.
«Nel 1981 in California conobbi il russo Vladimir Keilis-Borok, la massima autorità mondiale in materia di previsione dei terremoti, innamorato della politica americana. È stata sua l’idea di lavorare insieme, ci chiamavano “la strana coppia”. Abbiamo riconcettualizzato le elezioni, intendendole non come una sfida tra repubblicani e democratici. Le abbiamo lette in termini sismologici: stabilità, quando il partito della Casa Bianca rimane al potere, e terremoto, quando viene messo fuori gioco».

 

Questo testa a testa a novembre tra due candidati così problematici sarà la predizione più complessa degli ultimi anni?
«È stato più difficile prevedere la sconfitta di Hillary Clinton nel 2016. Contrariamente a esperti e sondaggi, i miei indicatori puntavano su Trump. Potete immaginare quanto ciò mi abbia reso popolare nella Washington democratica al 90%. Subito dopo l’elezione, mi arrivò una busta con dentro una copia del Washington Post con l’intervista in cui io avevo anticipato la vittoria del repubblicano. C’era una dedica scritta a pennarello: “Congratulazioni, professore. Ottima scelta”, firmato Donald J. Trump».

 

I politici le chiedono pronostici in privato?
«Certo! Vi racconto una storia tra le tante. Nel 1991, dopo la Guerra del Golfo, l’indice di gradimento di George H.W. Bush raggiunse quasi il 90%. Nessun grande nome tra i democratici voleva candidarsi contro di lui. In quel periodo uscì il mio primo libro sulle chiavi. Sostenevo che Bush fosse come Carter, non come Reagan, dunque un presidente per un solo mandato. Nessuno dei pezzi grossi mi diede retta. Ma un giorno mi arrivò una telefonata da Little Rock. Era Kay Goss, assistente speciale dell’allora governatore Bill Clinton. Mi chiese se fossi davvero convinto che Bush potesse essere battuto nel 1992. Glielo confermai e inviai al governatore una copia del mio libro. Il resto è storia».

 

Il suo metodo non è apprezzato solo dai politici. È vero che anche il governo ha voluto vederci chiaro?
«Una ventina di anni fa, mi contattarono per chiedermi se fosse possibile applicare le mie chiavi alle elezioni straniere. Risposi di no. Esse si basano sulla storia e sulla politica americane, ma metodologia e approccio potrebbero essere applicati. Mi risposero che “il gruppo” era interessato. Si trattava della Cia. Probabilmente nessuno lo saprà mai, ma è possibile che abbiano usato il mio modello da qualche parte nel mondo».