Sopravvissuto a due avvelenamenti. In cella, accusato di alto tradimento per il no all'invasione ucraina. Ripubblichiamo l'intervista esclusiva, realizzata a febbraio 2023, al leader dei dissidenti russi in attesa di giudizio

Il leader dell’opposizione politica democratica in Russia Vladimir Kara-Murza si racconta in questa intervista esclusiva con L’Espresso, scritta a mano dall’area di massima sicurezza del quinto centro di detenzione preventiva di Mosca, dove finiscono gli assassini. Detenuto dall’aprile 2022 e in attesa del processo, previsto a febbraio, Vladimir Kara-Murza è la prima persona a essere accusata di «alto tradimento» solo per aver criticato il Cremlino denunciando in alcuni interventi pubblici i crimini commessi da Putin con l’invasione dell’Ucraina e l’accondiscendenza dell’Occidente nei suoi confronti. L’accusa più grave è di aver diffuso notizie «false» sulle forze armate russe guidato da «odio politico» contro le autorità. Kara-Murza, 41 anni ed ex stretto collaboratore del leader democratico e oppositore di Putin Boris Nemtsov (ucciso nel 2015 vicino al Cremlino), è sopravvissuto a due tentativi di avvelenamento nel 2015 e nel 2017. Dietro ci sarebbe stata la mano, come rivelato da un’inchiesta della piattaforma indipendente Bellingcat, dell’Fsb, agenzia d’intelligence nata sulle ceneri del Kgb, organo di sicurezza dell’Urss. Kara-Murza sarebbe finito nel mirino per aver partecipato alla stesura della legge “Magnitsky” che impone sanzioni ad alti funzionari del regime russo che hanno violato i diritti umani. Come dice Hillel Neuer, direttore esecutivo della Ong UN Watch: «Nonostante il pericolo, con coraggio ha rifiutato di rinunciare alla sua lotta per la democrazia. E ora, ancora una volta, ne sta pagando il prezzo». Se condannato, Kara-Murza rischia altri venti anni di carcere.

 

Com’è la vita quotidiana in carcere?
«Ogni giorno è un ciclo che si ripete all’infinito, monotono: dalla sveglia alle sei del mattino fino a quando le luci si spengono. Tre pasti, un’ora di passeggiata in cortile: è piccolo e coperto da un tetto, solo una stretta striscia di cielo è visibile. Passo la maggior parte della giornata a leggere e scrivere. C’è un’ottima biblioteca: libri di storia e filosofia e memorie di dissidenti sovietici. Ci sono stati molti prigionieri politici qui e i libri sono di solito acquistati e donati dai reclusi. Il mio momento preferito è alle sette di sera, quando la guardia apre la fessura della porta della cella e mi consegna la pila giornaliera di lettere. Ricevo lettere da tutta la Russia, persone che vogliono esprimere solidarietà e sostegno per la mia posizione contro Putin e contro la guerra. Mi ricordano quello che ho sempre saputo: quante persone belle, perbene e con vedute democratiche ci sono in Russia e quanto sia falsa la propaganda ufficiale del Cremlino sul “sostegno universale” al regime e alla guerra».

 

 

 

Cosa sta scoprendo che prima non sapeva dell’esperienza dei dissidenti sovietici?
«Ho studiato a lungo il movimento che ammiro profondamente, ho avuto l’onore di conoscere molte di queste persone straordinarie, tra cui Natalja Gorbanewskaja, Vladimir Bukovsky e Jelena Bonner. Dal mio arresto ho riletto alcuni dei loro scritti e memorie, e molti dei miei compagni di cella li hanno letti su mio consiglio. Per me il movimento dissidente sovietico offre una lezione di grande speranza e ottimismo: per quanto forti siano le forze della tirannia, alla fine la verità, la dignità e le convinzioni ne escono più forti. Come amava dire un dissidente sovietico: la notte è più buia prima dell’alba».

 

Si sentirà spesso solo. Cosa le manca di più?
«La prigione è progettata per farti sentire solo. Mi manca, ovviamente, la mia famiglia. Non vedo mia moglie e i miei figli da molti mesi, non ho nemmeno sentito la loro voce al telefono. Il Comitato investigativo russo (che segue le principali indagini in Russia, ndr) mi ha proibito di telefonare ai miei figli sostenendo che questo potrebbe “minacciare l’indagine”. E questo la dice lunga di un regime che parla di “valori familiari”. Quello che aiuta a sopravvivere è che le persone che mi tengono qui sono nel torto. I veri criminali sono quelli che stanno conducendo la guerra, non quelli che stanno parlando contro la guerra».

 

È stato avvelenato due volte (2015 e 2017) , è stato in coma, in condizioni molto critiche, i medici le avevano dato il 5 per cento delle possibilità di sopravvivere. Lei però ha deciso di tornare in Russia. Perché? Rimpiange questa scelta?
«Non ho mai lasciato la Russia. Completata la riabilitazione sono tornato a casa. La mattina in cui Putin ha lanciato il suo attacco all’Ucraina, il 24 febbraio, mi sono svegliato nella mia casa di Mosca, la stessa casa vicino alla quale sarei stato arrestato ad aprile. Per me è una questione di principio: un politico russo deve stare in Russia. Non mi sentirei in diritto morale di parlare, di chiamare gli altri all’azione se fossi seduto al sicuro in un luogo lontano. La Russia è il nostro Paese e non lo daremo a delle canaglie».

 

L’ultima persona accusata di tradimento per opposizione politica è stato lo scrittore premio Nobel Alexander Solzhenitsyn nel 1974. La onora l’accostamento?
«Ogni dittatura vuole identificarsi con la nazione che malgoverna e, in questa logica perversa, ogni oppositore del regime diventa un “traditore”. Sono onorato di essere in compagnia di Alexander Solzhenitsyn. Ma i veri traditori sono quelli che stanno distruggendo il futuro, il benessere e la reputazione del nostro Paese per il loro potere personale. Ma la Storia metterà tutto al suo posto».

 

Come vede la Russia dal carcere?
«Un grande Paese, bello e culturalmente ricco, con molte persone buone e di talento, che viene malgovernato e derubato da un regime aggressivo, autoritario e cleptocratico. Ma so che non sarà sempre così».

 

La Russia non è, quindi, condannata all’autocrazia?
«Una delle nozioni più offensive che abbia mai sentito è che ci sono alcune nazioni che semplicemente “non sono fatte” per la democrazia. Ronald Reagan la definì “condiscendenza culturale o peggio”. Non ho dubbi che avremo libertà e democrazia, penso che arriverà molto prima di quanto si possa vedere oggi. Una caratteristica della società russa è che, per quanto bui siano i tempi e per quanto forte sia la repressione, ci sono sempre persone disposte a difendere quello che è giusto. La mia speranza è che quando le persone nel mondo libero pensano e parlano della Russia, ricordino non solo gli abusi, gli aggressori e i cleptocrati che siedono al Cremlino, ma anche coloro che si oppongono a loro. Anche noi siamo russi».

 

Pensa che la guerra in Ucraina non si fermerà finché Vladimir Putin rimarrà al potere? Cosa dovrebbe fare l’Occidente?
«Putin è al potere da più di due decenni segnati da guerre. È arrivato al Cremlino come conseguenza della brutale guerra in Cecenia. Poi la distruzione dei media indipendenti, del pluralismo politico, delle libere elezioni e dei diritti civili. Quindi l’invasione della Georgia, l’annessione della Crimea, la prima incursione nell’Ucraina orientale, il bombardamento della Siria. Ora un attacco su vasta scala all’Ucraina, con crimini contro l’umanità nel mezzo dell’Europa. Non si fermerà finché rimarrà al potere. Anni di pacificazione occidentale nei confronti di Putin ci hanno portato a questo. Se gli viene concessa un’uscita salva-faccia da questa guerra, tra un anno o due ne avremo un’altra. L’unica soluzione è avere un governo in Russia che rispetti lo Stato di diritto sia in patria che all’estero. Spetta a noi il cambiamento ma è importante che il mondo libero mantenga il dialogo con la parte della società russa che vuole un futuro diverso».

 

Cos’è la libertà per lei, ora?
«Nessuno può toglierti quella interiore, qualunque siano le circostanze esterne. Quelli di noi che sono in prigione per aver parlato contro la guerra sono più liberi di quelli fuori che sono costretti a difenderla pubblicamente. Ho visto in tv la sessione del nostro cosiddetto Parlamento che stava approvando l’ennesimo pacchetto sulla guerra. Ho visto la paura sui volti dei parlamentari. Quando, anni fa, stavo realizzando un documentario sul movimento dissidente sovietico ho chiesto a Vladimir Bukovsky cosa lo avesse sostenuto in prigione. Lui mi rispose: la consapevolezza di avere ragione. Quando sai che hai ragione, la paura scompare. Oggi so esattamente di cosa parlava».