La storia

Schiavi nelle miniere d'oro della Mauritania per poter raggiungere l'Europa

di Bianca Senatore   6 maggio 2024

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Migranti dal Mali e da altre regioni dell'Africa lavorano senza sosta e senza nessuna sicurezza nell'estrazione del metallo prezioso. Sperando di trovare un po' d'oro da dare al padrone in cambio dei soldi per sopravvivere o partire. Mentre l'Europa si accorda con il governo locale per non far arrivare nessuno

Poche case sparse, il deserto che si incontra con l’oceano e sulla spiaggia una decina di barche pronte a partire. Siamo a Touilit, un minuscolo villaggio della Mauritania affacciato sull’Atlantico. Fino a qualche settimana qui vivevano solo alcuni pescatori, poi all’improvviso le strade si sono riempite di uomini e donne carichi di zaini e borsoni, pronti a imbarcarsi. Perché è proprio da Touilit che i trafficanti hanno avviato le partenze verso l’Europa, direzione isole Canarie. «El Hierro, el Hierro», urlano un gruppo di ragazzi, tutti subsahariani.

«È il nome di una delle isole spagnole, ed è particolare, per questo lo ricordano più facilmente», racconta qualcuno della zona. «Anche se poi, magari, non arrivano nemmeno lì». Touilit è solo uno dei punti di partenza di questa rotta verso le isole Canarie. Poco più a nord c’è il villaggio di Lemhaisrat. Anche in questo luogo stanno arrivando tante persone, pronte a salpare su imbarcazioni lunghe come antiche piroghe dal legno variopinto.

Sono circa due mesi che la rotta dalla Mauritania verso la Spagna è cresciuta all’improvviso e infatti tra El Hierro, Fuerteventura e La Palma ci sono stati 12.393 arrivi dall’inizio dell’anno rispetto ai 2.178 del 2023. L’aumento è stato del 469% e racconta di un cambiamento nei flussi migratori, con un accrescimento delle partenze via mare ma anche via terra. Attraverso  il Sahel verso l’Algeria, la Libia e la Tunisia. Non è un caso che l’Unione Europea abbia deciso di stanziare proprio per la Mauritania l’incredibile somma di 210 milioni di euro, di cui gran parte serviranno a finanziare polizia o altri corpi e centri per il respingimento dei migranti. Affinché non arrivino nemmeno sulle coste del Mediterraneo e nemmeno sul quell’Atlantico. Il patto è stato siglato lo scorso febbraio dalla commissaria Ue per gli Affari interni Ylva Johansson e dal ministro mauritano Mohamed Ahmed Ould Mohamed Lemine. «I soldi arriveranno entro la fine dell’anno», ha rassicurato l’Ue, ma intanto il 22 giugno in Mauritania ci saranno le elezioni presidenziali e il governo del Paese potrebbe cambiare. 

«Qui esiste ancora la schiavitù»
Il clima politico nel Paese è molto teso in questi giorni, anche perché la società mauritana è frammentata e in costante contrapposizione. Anche se la schiavitù è stata ufficialmente abolita nel 1981, in Mauritania le sue tracce sono ancora presenti ovunque. C’è una parte della popolazione Haratin, nera originaria dell’Africa subsahariana che è asservita all’altra fetta di popolazione berbera o araba, di carnagione bianca o mora, i Bidhan: i padroni.

Il tema della schiavitù e della divisione in caste cerca sempre di emergere nel dibattito per le elezioni politiche, soprattutto per merito di Biram Dah Abeid, leader politico e fondatore del coordinamento contro la schiavitù in Mauritania. «In questo momento la situazione è molto grave per noi attivisti abolizionisti della schiavitù». A parlare in esclusiva con l’Espresso è proprio Biram Dah Abeid, appena rientrato nella capitale Nouakchott dopo esser scappato per sfuggire alle minacce di morte. «Vogliono impedirmi di presentarmi alle elezioni, perché temono che possa vincere, non è la prima volta», racconta Biram. «La schiavitù in Mauritania continua nella piena impunità e riguarda l’80% della popolazione, perché è ereditaria. Ci sono schiavi nelle case, nelle fattorie, nelle miniere. La polizia uccide i neri e gli Hartani-Haratine senza essere perseguita, arresta e maltratta gli immigrati africani sub-sahariani che per arrivare in Europa attraverso il mare o il deserto passano da noi. E in cambio avranno anche tanti soldi? Siamo convinti che l’Ue sbagli a trattare con il governo della Mauritania, perché è totalmente corrotto e utilizzerà i fondi europei solo per gli interessi personali dell'oligarchia che domina il paese. Siamo certi che nemmeno un soldo dei fondi dell’Europa verrà investito in Mauritania per regolare il problema dell'immigrazione illegale. Fino a quando la Mauritania resterà un paese schiavista, corrotto e violento non potrà dare il proprio contributo in favore della corretta immigrazione verso l'Europa». In questi giorni, sfidando le minacce, Biram Dah Abeid ha presentato la sua candidatura alle elezioni presidenziali del 22 giugno.

L'inferno delle miniere d'oro
La schiavitù lascia la sua impronta su molte relazioni di lavoro e le miniere d’oro ne sono un esempio emblematico. Sono luoghi dove decine di migliaia di migranti neri cercano di accumulare le risorse per poter viaggiare alle Canarie o sostenere le loro famiglie nei paesi di origine. A raccontarlo sono Jose Gonzalez Morandi e Luca Queirolo Palmas, ricercatori di un progetto europeo - Solroutes (Solidarity and Migrants’ routes across Europe at Large) – che nel mese di febbraio hanno documentato le condizioni di lavoro nel settore dell’estrazione artigianale a Chami, a  3 ore e mezza dalla capitale Nouakchott. Il progetto finanziato dal European Reserach Council, in un’Europa sempre più fortezza, studia paradossalmente come abolirne i confini.

«I padroni dovrebbero darci il 25% del ricavato, ma quando il pozzo inizia a rendere abbassano la tariffa al 20%». Lo hanno raccontato i minatori a Jose e Luca in uno stralcio delle numerose interviste che hanno realizzato nella miniera. «I Mori bianchi, i Bidhan, che hanno avuto in concessione dallo Stato la terra dove scavare, sottraggono tutti i costi e poi lasciano alle squadre dei lavoratori una quota minima del guadagno - spiegano i ricercatori - Tutto si basa su accordi informali; non c’è nulla di scritto. Alla fine, il guadagno è minimo, ai limiti della sopravvivenza, a meno che non intervenga la fortuna». «Ci danno una scatola di sardine al giorno. – hanno raccontato altri minatori - Almeno lo schiavista ti assicurava da mangiare, era meglio». «Abbiamo provato a fare sciopero, a protestare – hanno spiegato altri - Ma i padroni ci hanno mandato contro la polizia che è a loro servizio». C’è chi vorrebbe scappare alle Canarie, chi tornare indietro. Ma la verità è che la maggior parte è bloccata alla miniera e non riesce a muoversi. 

Nel corso delle settimane di lavoro, i ricercatori di Solroutes sono andati a visitare i pozzi che distano circa 80 km dalla città di Chami. «L’area è una specie di gruviera – spiega Luca Queirolo Palmas – Ci sono centinaia di perforazioni circolari dal diametro di circa un metro e mezzo attorno a cui si accalca la presenza del lavoro. I minatori sono tutti neri, per lo più migranti e rifugiati del Mali». In questo paesaggio lunare, decine di Bidhan con il turbante e l’abito tipico si aggirano ovunque. «Sono i padroni dei pozzi o i loro delegati – spiegano i ricercatori – e sorvegliano l’area per controllare che il bottino dello scavo vada nelle loro mani». La moschea con un altoparlante è la struttura più grande dell’accampamento, il quartier generale attorno a cui si radunano. 

Durante una delle loro interviste, uno dei padroni si avvicina ai ricercatori per commentare la visita di Pedro Sanchez e Ursula Von der Leyen avvenuta qualche giorno prima. «L’Europa non deve dare soldi al governo mauritano – hanno detto - perché si mangerà tutto. Devono darli a noi, per comprare le macchine per i pozzi. Così noi vi teniamo bloccati i lavoratori e non scappano alle Canarie».  La manodopera è mobile: la fuga, la migrazione è per gli operai la forma principale di resistenza all’oppressione. Sotto una tenda, che è anche la loro casa, i minatori continuano a parlare delle loro condizioni nel campo di lavoro. «Noi lo chiamiamo Israele, per la quantità di morti che fa», raccontano i minatori a Luca e Jose. «È il più pericoloso, dove ci sono più incidenti. La settimana scorsa sono morte tre persone. Lavoriamo giorno e notte; moriamo per i crolli e per l’elettricità che fa contatto con l’acqua». Il nome che i minatori hanno dato questo campo riconduce alla Palestina, a Gaza, spiegano i ricercatori, perché proprio come lì, qui il sottosuolo che è segnato da una ragnatela di corridoi.

«Siamo morti viventi – dicono i minatori - ogni giorno scendiamo nella nostra tomba per poi risalire, se dio vuole». Insicurezza e oppressione sono gli argomenti ricorrenti nelle loro testimonianze, mentre padrone e tariffa le parole che ritornano in continuazione. «Non possiamo scioperare per imporre una tariffa unica», hanno spiegato ancora i lavoratori. «L'ultima volta, 5 mesi fa, con la scusa che volevamo fare i clandestini alle Canarie ci hanno rispedito in Mali o messo in prigione».  È lavoro, ma è anche schiavitù, e produce l’oro che circola e luccica, dall’altro lato del confine. «I soldi europei proveranno ad impedire la fuga – commenta Luca Queirolo Palmas - proveranno ad evitare che i minatori si sottraggano alle condizioni di lavoro che sono loro imposte».

Anche questo è il confine dell’Europa e la sua esternalizzazione.