Sud America

Il controesodo venezuelano: così i migranti tornano a casa. «Contro di noi troppo razzismo»

di Martina Martelloni, Intersos testo e foto, da El Amparo (Venezuela)   4 giugno 2024

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Via dalla crisi e dalla xenofobia, al confine colombiano a migliaia traversano l’Arauca e tornano a casa dopo aver coltivato la speranza di migliori condizioni di vita in Ecuador

È un pomeriggio di inizio marzo, ci sono circa 38 gradi e un’umidità che rende densa e poco nitida l’aria di El Amparo, piccola e remota località dello Stato venezuelano di Arauca. Lungo il fiume che separa la Colombia dal Venezuela, approdano dieci persone. Sono sfinite. Quattro adulti – un solo uomo e tre donne – e sei bambini dai tre ai quindici anni. Trascinano sulla sponda grandi sacchi di tela usurata e sporca di terra, strapieni e pesanti. Osservandola da lontano, l’immagine è confusa, non è chiaro dove finisce il sacco e dove inizia il corpo della persona che lo tiene con sé. Hanno appena oltrepassato il confine colombiano, attraversando il fiume con una vecchia piroga. Sono cittadini venezuelani e questo è il racconto di un ritorno, capitolo inaspettato di quella che è iniziata come una storia di fuga.

 

«Siamo in viaggio da due mesi», dice Juan, un trentenne originario di Caracas con la pelle ustionata dal sole. «Abbiamo camminato senza sosta, a volte c’erano degli autobus per alcuni tratti, altre volte abbiamo chiesto passaggi a dei camion che attraversavano la frontiera. Quando siamo arrivati sul fiume Arauca, navigarlo ci è sembrata la cosa più semplice».

 

Sono partiti tutti dall’Ecuador, uno dei Paesi più coinvolti dalla migrazione venezuelana che, dal 2017, ha portato più di 7,7 milioni di persone a lasciare il Paese a seguito dell’aggravarsi di una crisi economica e sociale senza precedenti. Un numero così alto che fa di questa la più grande crisi migratoria dell’America Latina e una delle più grandi al mondo.

 

Tra le due sponde del fiume Arauca i migranti viaggiano di giorno e di notte, imbarcazioni in legno di ogni dimensione tagliano la corrente nel tentativo di non restare incagliate tra le rocce del fondale. Da diversi anni questo è un fiume di fuga. Da sempre, invece, delinea il confine tra Colombia e Venezuela: da una parte la città colombiana di Arauca, dall’altra quella venezuelana di El Amparo.

 

A intervenire per primo all’arrivo di Juan e delle altre nove persone è Ricardo, un giovane operatore umanitario venezuelano che lavora da un anno per l’ong italiana Intersos. «Quando li ho visti arrivare lungo la strada, ho subito pensato che fossero in viaggio da lungo tempo, erano stremati». Il loro racconto conferma la prima impressione. Dicono di aver iniziato il viaggio da Ibarra – città dell’Ecuador settentrionale – poi, dopo diversi giorni, sono arrivati sulla frontiera con la Colombia. Hanno proseguito il cammino fino a raggiungere la capitale Bogotà per poi incamminarsi verso Arauca, da lì l’imbarco e la traversata del fiume.

 

I volti mostrano espressioni di chi, stravolto dalla stanchezza, ha perso il senso del tempo che passa. La memoria dei giorni trascorsi, camminando, diventa fumosa fino ad annebbiare il “quando” della partenza. Ricardo è seduto vicino a loro, fa domande e ascolta la loro storia. Gli adulti restano sdraiati a terra, con le teste poggiate sui bagagli. I bambini, invece, appaiono euforici e sollevati mentre si lanciano un pallone da calcio trovato per strada. Indossano vestiti e sandali neri consumati dal viaggio. Mostrano mani e piedi, tagliati e bruciati dall’asfalto e dalla terra.

 

Il perché del ritorno lo raccontano gli adulti con poche e brevi frasi che descrivono la loro vita da stranieri e il clima razzista, xenofobo che per anni hanno subito in Ecuador. Hanno resistito finché hanno potuto poi, però, hanno toccato il fondo. «Ci abbiamo provato – dice Juan – ma non potevamo più continuare a vivere in quel modo. Venivamo trattati come nullità, non ci davano una casa, non ci davano un lavoro solo perché venezuelani. Se proprio dobbiamo soffrire per vivere, tanto vale farlo a casa nostra». Tornare in Venezuela è una scelta coraggiosa quanto lo è stata quella di partire: i ritorni nel Paese sono aumentati nell’ultimo anno più o meno per motivi simili a quelli di Juan e degli altri del gruppo. Non è una massa, ma una realtà fatta di storie individuali, una tendenza. «Negli ultimi mesi abbiamo incontrato famiglie intere che decidono di tornare, per un breve periodo o per sempre», racconta Ricardo.

 

 

La rotta migratoria, per chi parte e per chi torna, è un’incognita sulla vita. Tra strade e sentieri isolati, terre dominate da illegalità di ogni tipo e città sconosciute. Le testimonianze di chi torna rivelano i rischi incontrati durante tutto il cammino: furti, aggressioni fisiche, tentativi di abusi sessuali e di reclutamento delle donne nella tratta della prostituzione. Miriam si racconta più delle altre donne del gruppo, sfoga nelle parole tutta la paura provata durante il tragitto. «C’è stato un momento – dice – nel quale ho temuto di non farcela. Eravamo arrivati alla frontiera con la Colombia, dovevamo solo attraversare il fiume con la piroga e raggiungere il Venezuela. Degli uomini sconosciuti si sono avvicinati e hanno iniziato a chiedermi con forza di unirmi a loro, mi avrebbero dato un lavoro. Volevano che mi prostituissi».

 

Per chi torna, si aprono nuovi problemi. «Le famiglie che tornano spesso riportano con sé figli nati su territorio straniero e per lo Stato venezuelano quelli sono bambini apolidi, senza nessun diritto – spiega Ricardo – per questo Intersos, qui, oltre a sostenere il sistema scolastico e a occuparsi, grazie al sostegno dell’Unione europea, dei bisogni primari delle popolazioni indigene dell’Amazonas, offre anche un supporto legale ai rifugiati che non hanno i documenti. In Venezuela – sottolinea ancora l’operatore – persino il bisogno più basilare è sempre più un privilegio, dal farsi curare fino al ricevere assistenza legale per avere i documenti di identità». Anche tra i figli di Miriam, una delle giovani donne del gruppo, ce ne sono alcuni nati negli anni della fuga in Ecuador che oggi, tornati in Venezuela, rischiano di diventare bambini invisibili. Chi torna sembra dover penare ancora di più per ricominciare a vivere nel proprio Paese. «Ne ho incontrate diverse di persone come loro, di venezuelani che decidono di tornare, ma mai in condizioni simili», dice Ricardo mentre segna ogni dettaglio di questa storia su un taccuino da lavoro, quello dove conserva i racconti di chi incontra lungo la frontiera con la Colombia. «Non sono una famiglia, ero convinto lo fossero, ma sono solo persone che hanno deciso di unirsi per tornare insieme. Tra di loro c’è chi è partito nel 2019 da Caracas, mentre una delle due donne, che è anche la mamma dei sei bambini, ha lasciato lo stato venezuelano di Zulia nel 2022».

 

La crisi venezuelana è ancora profonda. Dal 2017 la percentuale di famiglie che vivono al di sotto della soglia di povertà ha costantemente superato il 90%. Di questo Juan è consapevole, dice di non avere aspettative, dice che in qualche modo se la caveranno. «Voglio tornare a Caracas, rivedere la mia famiglia, la mia casa. Cosa farò dopo? Non si possono fare progetti qui, io volevo solo tornare e ci sono riuscito. Sono molto stanco, ora vorrei solo riposare».