I produttori di armi e di intelligence sono settori chiave per Tel Aviv. Che ora può sfruttare il brand “testato a Gaza”. Parla il giornalismo investigativo Antony Loewenstein

«L’impatto del catastrofico fallimento militare e d’intelligence che ha colpito Israele il 7 ottobre scorso, per ora, non sembra avere scalfito la profonda capacità delle aziende chiave del settore di promuovere, testare e vendere i loro prodotti all’estero. Armi e sistemi di sorveglianza, per esempio: nelle due grandi fiere del comparto che si sono tenute nei mesi seguenti al 7 ottobre, a Parigi e a Singapore, Israele aveva una massiccia presenza di stand sia istituzionali sia di aziende private. E l’interesse a comprare, che dopo l’invasione russa dell’Ucraina è cresciuto in tutto il mondo, non sembra diminuito, anzi si nutre ancora di più del suo brand “testato a Gaza” che accompagna tutta la promozione commerciale israeliana su questi prodotti».

 

Antony Loewenstein non ha dubbi: se un calo delle vendite ci sarà, in termini di armi e tecnologie di sorveglianza di massa, non si può ancora dire. E lo sa bene il giornalista investigativo australiano, autore di bestseller, regista e cofondatore di “Declassified Australia”. Nipote di profughi ebrei che lasciarono la Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste, ha vissuto a Gerusalemme Est dal 2016 al 2020. Ha scritto per New York Times, Guardian, Washington Post, Al Jazeera English, The New York Review of Books e altre testate. Tra i suoi libri più noti c’è “Laboratorio Palestina – Come Israele esporta la tecnologia dell’occupazione in tutto il mondo”, di recente tradotto in italiano da Fazi Editore.

 

«Quello che si inizia a vedere, invece, è per il momento una ricaduta politica di quanto accade a Gaza dal 7 ottobre. E questo è uno scenario tutto da valutare, perché molti acquirenti di armi e sistemi di sorveglianza israeliani potranno decidere di bloccare o di ridurre gli acquisti e in tale caso l’impatto diventerebbe molto più profondo di quello che si vede attualmente. Anche perché molti regimi, arabi in particolare, dipendono da quelle tecnologie di sorveglianza del dissenso, non hanno un’alternativa da comprare e per ora continuano a servirsene per ragioni interne. La lobby delle armi israeliana, per reagire a quanto accaduto, ne sta sperimentando di nuove in questa operazione a Gaza e si propone di venderle come ha sempre fatto».

 

L’inchiesta di Loewenstein sulle logiche e sulle modalità di funzionamento della macchina da profitto dell’industria bellica israeliana – caratterizzata anche dalle porte girevoli che riguardano le carriere politiche di molti ex militari, che poi finiscono nei consigli d’amministrazione di aziende che vendono all’esercito e all’estero – ha mostrato come fin dall’inizio della storia d’Israele, negli anni ’50, quella delle armi sia stata una strategia economica nazionale. Ma questo rapporto simbiotico tra politica e militari sembra essersi incrinato dopo il fallimento del 7 ottobre. «Quello che è sicuro è che l’arroganza di un approccio ha fallito – spiega Loewenstein – un sistema costoso e moderno di sorveglianza da remoto, che ha portato le forze armate israeliane a immaginare di contenere per sempre la Striscia di Gaza con la tecnologia, ha fallito in maniera impressionante. E contro Hamas, che francamente non è Hezbollah per dimensioni ed equipaggiamento. Oltre a questo, il 7 ottobre ha mostrato a tutti in Israele l’assurdità di dispiegare le principali forze armate per difendere l’occupazione in Cisgiordania, per difendere i coloni. Oggi la domanda di sicurezza interna è questa ed è proprio sul controllo della Cisgiordania che, dal 1967, si vendono in tutto il mondo le armi israeliane, anche perché i vertici di Tel Aviv da tempo erano convinti che Hamas fosse solo interessata a mantenere il suo ruolo a Gaza, non ad attacchi esterni. Questo cambia molte cose. Come le cambierà per sempre per Hamas, che secondo me non si aspettava un tale fallimento delle difese israeliane e che adesso non potrà più tornare alla situazione precedente e forse non lo aveva previsto fino in fondo».

 

 

Nella sua inchiesta, Loewenstein ricostruisce meticolosamente tutte le «relazioni pericolose» dei governi israeliani dalla fondazione a oggi. Sono stati partner commerciali, ma anche di consulenze di addestramento, regimi come quello dei militari in Argentina, la Romania di Ceausescu, l’Haiti di Papa Doc, l’Indonesia di Suharto, un ruolo militare avuto anche nel genocidio ruandese, la guerra civile in Guatemala e la dittatura cilena di Pinochet. «Fino ad arrivare ai rapporti che ha con governi come quello italiano o quello ungherese, che nascono in aree politiche un tempo molto critiche per l’opinione pubblica israeliana, ma che sono ormai normalizzate», continua il giornalista australiano.

 

E fino a oggi, per decenni, i governi israeliani hanno nascosto – anche all’opinione pubblica interna – questi rapporti, insistendo sul mito dell’esercito «più morale del mondo». Ma quanto quel che accade a Gaza, raccontato in diretta globale, potrebbe definitivamente smontare questa narrazione e potrebbe essere una catastrofe economica per Israele?

 

«Israele, da tempo, investe enormi energie politiche, economiche, militari e narrative nel settore bellico e l’occupazione è il laboratorio di questo pilastro dell’economia del Paese. È quella che legittima il ruolo globale d’Israele nel settore», spiega ancora Loewenstein. «Con Benjamin Netanyahu, negli ultimi vent’anni, il settore è cresciuto vertiginosamente e il 7 ottobre ha accelerato ancora di più questo processo. Sono tante le realtà della Silicon Valley, negli Usa, che hanno aumentato i loro investimenti nel comparto in Israele, perché sanno che sarà un’occasione di grandi affari. E non voglio generalizzare, ma molte di queste realtà guardano con ammirazione a quello che sta facendo Israele a Gaza, non con preoccupazione o disgusto. Sì, potrebbe essere una catastrofe, soprattutto la fine dell’occupazione, a livello d’immagine, ma resta un campo che rende molto per molte realtà e non sarà facile».