Nel 2014 diventarono capitale siriana e roccaforte irachena dell’Isis. Oggi vivono una ricostruzione lenta. Tra povertà, ordigni inesplosi lasciati dalla guerra e derive settarie latenti

La piazzola della rotatoria al Nahim è sormontata da una struttura ad archi che lascia intravedere, pochi metri più indietro, la scritta «I love Raqqa», dove al posto di love c’è un cuore rosso, come se ne vedono ormai in tante città del mondo. Solo che qui i colori sono sbiaditi dalla polvere delle strade e dagli scarichi delle auto e dei camion alimentati a benzina grezza, che rendono l’immagine di qualsiasi scorcio urbano simile a una foto scattata con una Polaroid qualche decennio fa.

 

Sono trascorsi sette anni da quando la città è stata sottratta al controllo del sedicente Stato Islamico, dieci da quando il «Califfato» l’aveva proclamata capitale. Oggi in mezzo al traffico del centro hanno riaperto le botteghe del formaggio, con i secchi di plastica in mostra sul marciapiede, qualche caffè, i negozi di tessuti. Accanto ai tanti edifici fatiscenti ci sono nuovi palazzi in costruzione, ma nessuno ha dimenticato che fino al 2017 la rotatoria al Nahim era il luogo dei processi sommari e delle esecuzioni di piazza.

 

«Qui sono stati condannati a morte molti soldati, soprattutto del regime, e civili», ricorda Ibrahim: «E la gente era chiamata ad assistere, perché vedesse con i propri occhi cosa significava trasgredire. Le teste dei “colpevoli” venivano poi lasciate lì per giorni. Proprio dove oggi ci sono gli archi, realizzati dopo la liberazione per ricordare il periodo abbaside, quando Raqqa era davvero la capitale di un califfato». 

 

Ingegnere civile nato e cresciuto nella città della Siria orientale, oggi parte della regione autonoma controllata dalle Forze Democratiche Siriane, Ibrahim ha partecipato alla ricostruzione e continua a lavorare con la municipalità e con le famiglie che, non avendo ancora trovato i fondi per rimettere a posto la loro casa, sono tornate a vivere fra le macerie. Perché l’alternativa era crescere i figli fra le tende dei campi di sfollati per chissà quanti altri anni.

 

«La città è stata rasa al suolo per il 70%, ma quasi tutti gli edifici hanno subìto forti danni durante la guerra – spiega – i fondi pubblici e quelli del supporto internazionale sono stati utilizzati per ripristinare la corrente elettrica, le strade, i servizi idrici, ma non ci sono soldi per le abitazioni private. E ancora oggi esiste un’altra Raqqa sottoterra, fatta di un labirinto di tunnel che rendono fragile ogni intervento».

 

Lo stipendio medio per chi riesce a trovare un lavoro qui o nelle altre città della Siria autonoma del Nord-Est, che vive prevalentemente di agricoltura, è di 60 dollari al mese. Quando un appartamento dignitoso in affitto ne costa 100. Alla povertà si aggiunge la carenza di infrastrutture, soggette agli attacchi di gruppi ancora riconducibili all’Isis lungo il confine meridionale e, al Nord, alle rappresaglie della Turchia, che nel territorio ha rilanciato la sua guerra al nemico storico Pkk, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan.

 

La storia recente di Raqqa è speculare a quella di Mosul, roccaforte dell’Isis in Iraq, dove la ricostruzione prosegue, ma è altrettanto incompiuta. La città vecchia che sorge sulla sponda occidentale del Tigri è ancora oggi quasi completamente in rovina, perché prima di passare alla ricostruzione bisogna completarne lo sminamento. Due anni fa è partito un progetto condotto dall’azienda americana Tetra Tech in collaborazione con alcune organizzazioni locali: tutte le mattine, dal sabato al giovedì, squadre di sminatori setacciano le macerie a palmo a palmo alla ricerca di ordigni inesplosi, disseminati ovunque dai miliziani del Daesh e poi sepolti dai bombardamenti americani nel 2017. Uno dei danni collaterali della liberazione, in un’area di inestimabile valore storico-artistico, dove nel 2018 è stato lanciato un progetto Unesco per la ricostruzione di luoghi di interesse collettivo: come la famosa moschea Al Nouri che il mondo aveva conosciuto in tv nel 2014, con il sermone di proclamazione dello Stato Islamico di Abu Bakr al-Baghdadi.

 

«Alla fine della guerra le persone si mettevano a scavare a mani nude fra le rovine provocando esplosioni e vittime – spiega Hassan, nato nella città vecchia e ora a capo dei gruppi di bonifica – abbiamo cominciato a riaprire le strade, poi siamo passati alle case. Questo era il cuore di Mosul, e della sua spiritualità, dove famiglie musulmane, ebree e cristiane vivevano in armonia». Ad Hassan l’Isis ha ucciso tre fratelli: «Sono tornato per loro, per rendergli giustizia». In mezzo a bombe inesplose, ruspe, macerie e uomini che si muovono con la cautela di chi sa che rischia di saltare in aria in qualunque momento, sono stati creati dei percorsi sicuri con i mattoni dipinti di bianco. Le zone a rischio sono contrassegnate con quelli rossi.

 

Sensibilizzare la popolazione è fondamentale perché alcune persone sono tornate a casa anche nella città vecchia. Mariam, ad esempio, ha riempito il cortile di piante e ha tinteggiato di rosa le pareti del piano terra perché è il colore preferito dalle figlie. E non importa se i due piani alti sono ancora pericolanti, da lassù si vede tutta Mosul.

 

Il richiamo delle proprie radici, quello che spinge a scegliere un rudere a casa propria piuttosto che una tenda in mezzo a decine di migliaia di sfollati, ha guidato anche un emigrato di vecchia data dopo una vita trascorsa fra la Nuova Zelanda e il Regno Unito: Nineb Lamassu è il fondatore di Sustainable Peace Foundation, che oggi si occupa fra le altre cose di riconciliazione. «Il lavoro più delicato è ricostruire un tessuto sociale dove ci sia spazio per le vittime, ma anche per i parenti dei “carnefici”. È l’unico modo per costruire un Paese meno sensibile alle derive settarie, dove i traumi del passato non continuino a condizionare il futuro».