Stati Uniti
Tim Walz, chi è "l’uomo medio" che piace a sinistra scelto da Kamal Harris come vice
Ha la battuta pronta, è un insegnante, è stato nella Guardia Nazionale. È progressista e vince nei collegi della destra. Per questo la candidata dem lo ha indicato come suo numero 2
È opinione comune che spesso quella del vicepresidente sia una scrivania non particolarmente affollata di faldoni. Un ruolo di supporto che pochissima luce ruba al presidente. Lo ha deferentemente assicurato anche J. D. Vance che Trump ha designato come numero due. Eppure, qualcosa da ridire su questo assunto l’avrebbe avuta il compianto senatore repubblicano John McCain. Nel 2008 la sua corsa alla Casa Bianca fu polverizzata non solo dal ciclone Obama, ma anche dalla scelta come vice di Sarah Palin, pioniera della deriva populista della destra americana.
«Non sono d’accordo con chi la definisce una decisione ininfluente. È la prima di rilievo che prende un candidato allo Studio Ovale, costituisce una sorta di parametro delle sue capacità decisionali». L’opinione è quella di Joel Goldstein, in forze alla Saint Louis University, massimo esperto in tema di vicepresidenza. «In elezioni che si prospettano un testa a testa come quelle del prossimo novembre, assicurarsi anche uno solo degli Stati in bilico farà la differenza».
Come nel 1960, quando John Fitzgerald Kennedy vinse di misura contro l’allora vicepresidente repubblicano in carica Richard Nixon. «Il democratico conquistò per un filo il Texas e altri Stati del Sud. Probabilmente non sarebbe accaduto se non avesse avuto nel ticket il texano Lyndon Johnson che aveva fatto campagna quasi esclusivamente lì», dice a L’Espresso il professore. L’effetto-vp, ci spiega, è stato risolutivo in molti altri casi come nel ’76 con Jimmy Carter e i tre punti decisivi determinati da Walter Mondale; oppure nel 1992 con la campagna di Bill Clinton che decollò dopo l’annuncio di Al Gore come vice; o ancora nel 2000 con il peso rassicurante del navigato e potentissimo Dick Cheneyaccanto al poco esperto George W. Bush.
Non stupisce, dunque, che nel match 2024, Kamala Harris abbia messo in campo un “veepstakes” ossessivo, un processo selettivo fulmineo date le circostanze, che ha portato alla consacrazione di Tim Walz, governatore del Minnesota. «Normalmente un candidato ha a disposizione almeno sei settimane per scegliere il vice. Il maxi-esperto Eric Holder, ministro della Giustizia dell’amministrazione Obama, che ha coordinato la commissione, questa volta ha dovuto farsi bastare molto meno».
Defilato dal palcoscenico nazionale fino a poco più di un mese fa, oggi Walz è uno dei volti più amati della sinistra. «Tra le ragioni per cui Harris lo ha scelto c’è la compatibilità», ci dice l’esperto, autore del manuale “The White House Vice Presidency: The Path to Significance, Mondale to Biden”. Questione anche di sorrisi. Smagliante quello di entrambi, è diventato il trademark di questa energica fase post-Biden. «Walz ha esperienza sia a livello nazionale che statale, nel ramo legislativo e in quello esecutivo. Harris marca la differenza con il candidato scelto da Trump, J.D. Vance, senatore dell’Ohio da appena due anni».
Classe ’64, Walz nasce in Nebraska in un paesello rurale. A diciassette anni si arruola nella Guardia Nazionale (la riserva Usa), dove rimane per oltre vent’anni affiancandovi l’attività di insegnante. Negli anni ’90 si trasferisce in Minnesota con Gwen, la collega diventata sua moglie, originaria proprio del North Star State. Qui insegna studi sociali e geografia alle superiori ed allena la squadra di football. È il referente della “alleanza gay-etero” del suo istituto, prima che i democratici iniziassero a lottare per i diritti della comunità Lgbtq+. Nel 2006 si candida al Congresso, conquistando un collegio blindato dal Gop. Dal 2018 è l’amatissimo governatore del suo stato.
Walz è il portabandiera del “midwestern dad vibe”, un’immagine genuina da uomo qualunque che si materializza in cappello camouflage e t-shirt larghe indossati volentieri anche in occasioni ufficiali. Un “progressive populist folk hero”, lo definisce Cnn, che non spaventa i moderati. Bilancia bene Harris, percepita come rappresentante dell’aristocrazia californiana. E disinnesca l’effetto demagogico dell’omologo repubblicano chiamato da Trump a titillare gli hillbilly degli Appalachi, i bianchi che popolano le aree rurali e quelli della Rust Belt industriale. «È una persona in cui tutti possono identificarsi, è cresciuto in campagna, parlerà agli elettori della classe media inclini a votare per Trump perché ritenevano i dem troppo elitari. Il suo contributo sarà importante in Stati chiave come Pennsylvania, Wisconsin, che confina con il suo Minnesota, e Michigan», assicura Goldstein. «Quando Walz era al Congresso, vinse in un distretto che aveva avuto un deputato conservatore da almeno cinque mandati. Posizione confermata anche sotto Trump. Questo suggerisce che nel 2016 ci sono state sicuramente persone che hanno votato per l’ex presidente, ma anche per lui al Congresso».
Di fede luterana, ha due figli: Hope, 23 anni, e Gus, 17, nati con fecondazione assistita. Un bonus che ne aumenta l’appeal a sinistra. «Possiamo definire progressiste le leggi approvate in Minnesota, ma è innegabile che siano tutte molto popolari, a partire dalla decisione di ristabilire nello stato il diritto all’aborto, fino ai provvedimenti sul controllo delle armi». E proprio su questo tema Walz, cacciatore, ha cambiato posizione negli anni anche grazie all’influenza della figlia. Nel 2018, dopo la strage di Parkland, diventò co-sponsor della legge della Camera sul divieto delle armi d’assalto. Da allora ha donato in beneficenza ogni centesimo ricevuto dalla lobby NRA.
A destra, la macchina del fango è già operativa. A tenere banco le polemiche sulla carriera militare che Walz avrebbe infiorettato, omettendo di non essere mai stato realmente in zone di conflitto. Come nel 2003, ad esempio, quando durante la guerra al terrorismo fece parte delle Forze di sicurezza, ma nella base di Vicenza. All’elenco delle controversie, si aggiungono le critiche al ritardo con cui nel 2020 inviò a Minneapolis la Guardia Nazionale durante le proteste per l’omicidio di George Floyd; nell’attesa, una stazione di polizia fu incendiata dai manifestanti.