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14 agosto, 2025Sessanta milioni in meno soffrono di denutrizione nel mondo, ma per 673 milioni è la quotidianità. Frutto di decisioni politiche e di tagli ad aiuti e cooperazione
Per chi crede che ogni singolo individuo su questo Pianeta abbia diritto a una vita libera dalla fame, leggere nell’ultimo rapporto Sofi delle Nazioni Unite che nel 2024 ci sono state ben 60 milioni di persone in meno a soffrire la fame dovrebbe essere una notizia semplicemente meravigliosa. Sono sessanta milioni di vite che ritrovano salute e dignità, bambini che possono credere nel futuro, madri che possono veder crescere i propri figli. Sono sessanta milioni di storie da riscrivere con un finale migliore.
Ancora una volta, si dimostra che “la fame” non è una piaga inevitabile, quasi fosse un fenomeno naturale. Si può ridurre. Come è accaduto costantemente nel lungo periodo tra il 1990 e il 2015. Si può fermare. A maggior ragione su un Pianeta che ha cibo a sufficienza per tutti. Eppure questa “buona notizia” è intaccata da altre pessime notizie.
La prima è che di persone che soffrono la fame, ne restano ancora 673 milioni. Un numero inaccettabile, indegno. Un numero talmente alto da rischiare di trasformare “la fame nel mondo” in un concetto quasi astratto e far dimenticare che quei seicentosettantatré milioni sono persone, vite vissute ogni giorno nella sofferenza e nell’ingiustizia.
La seconda è che quel rapporto si riferisce all’anno scorso e già in questi primi mesi del 2025 delle scelte nefaste stanno mettendo seriamente a rischio i progressi fatti.
Tra le decisioni iniziali della nuova amministrazione americana c’è stato il taglio dei fondi di Usaid – il principale erogatore di aiuti umanitari al mondo – che ha ridotto dell’83 per cento i propri finanziamenti. L’impatto è stato immediato e ogni progetto interrotto si è dimostrato una porta chiusa sulla possibilità di una vita migliore: solo per citare alcuni dei programmi di Azione Contro la Fame, in Repubblica democratica del Congo 12 mila bambini non hanno ricevuto cure per malattie infantili e non è stato possibile curare 650 casi di malnutrizione acuta grave. In Madagascar, la chiusura di due basi operative ha sospeso dieci cliniche mobili, lasciando senza assistenza cinquemila bambini malnutriti e 1.900 bambini malati. In Mozambico, oltre 30 mila persone hanno perso l’accesso ad aiuti alimentari essenziali.
Ampliando la prospettiva, uno studio pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica The Lancet ha stimato che, se questi tagli dovessero proseguire fino al 2030, potrebbero causare 14 milioni di morti evitabili, tra cui 4,5 milioni di bambini sotto i cinque anni. Un dato difficile da ignorare.
E oltre ai tagli di Usaid sono state annunciate drastiche riduzioni degli impegni umanitari anche da parte di Germania, Francia, Belgio, Regno Unito, Svezia e Paesi Bassi. Già questo sarebbe da solo sufficiente a far vedere sotto una luce diversa il pur positivo dato del 2024.
E poi c’è Gaza. Gaza è il simbolo di cosa accade quando la guerra sorpassa ogni limite e spezza ogni diritto, incluso quello al cibo. Fino all’ottobre 2023, nella Striscia non si moriva di fame. Oggi, secondo l’Ipc – il sistema globale che misura la sicurezza alimentare – Gaza è sull’orlo della carestia. I team di Azione Contro la Fame, presenti da oltre vent’anni nella Striscia, lavoravano per rafforzare l’autonomia delle comunità. Poi sono arrivati l’assedio, il blocco degli aiuti, il collasso dei servizi essenziali. E la fame è esplosa. Lo confermano ogni giorno i nostri operatori sul campo: sempre più famiglie non hanno accesso a cibo né acqua. Più di 20.000 bambini sono stati ricoverati per malnutrizione acuta, 3.000 in condizioni gravissime.
Mentre si cercano soluzioni logistiche via mare o per via aerea, si continua a non considerare che il problema non è il trasporto: è l’accesso. Dal 17 luglio, almeno 16 bambini sono morti di fame. Fino a che punto si avrà il coraggio di spingere una crisi estrema che è già ben oltre l’immaginabile?
Gaza è il luogo dove forse l’orrore sta toccando le punte più alte, ma non è purtroppo l’unico dove la fame sta devastando la vita di milioni di persone. Ovunque ci siano guerre, in tutti i territori colpiti dalle conseguenze del cambiamento climatico, ovunque le disuguaglianze creino fragilità e marginalità, le persone sono esposte al rischio dell’insicurezza alimentare.
E se guardiamo alle cause della fame, capiamo ancora una volta che non si tratta di una piaga inevitabile. È una questione di scelte. Allora la domanda è semplice: che tipo di società vogliamo essere?
Non si tratta di colpe, ma di responsabilità. E di possibilità. La fame non è il risultato della scarsità, ma dell’inerzia. Della mancanza di priorità o, più semplicemente, della priorità assegnata ad altro.
Quando si investe in sicurezza alimentare, si costruisce pace, si rafforza la stabilità, si proteggono i bambini, il futuro del pianeta. Il rapporto Sofi lo dice chiaramente: la fame può essere governata.
Se il 2024 ha segnato un passo avanti dobbiamo, però, essere ancora più determinati di prima per non tornare indietro. Serve promuovere la volontà politica di rilanciare gli aiuti umanitari, investire nella cooperazione internazionale, garantire accesso sicuro agli aiuti ovunque siano necessari.
Gaza, Repubblica Democratica del Congo, Madagascar, Ucraina: ogni contesto ci ricorda che la fame è una condizione che cambia quando cambiano le scelte. Le nostre. E se la fame si può fermare, allora dobbiamo farlo.
*Simone Garroni, direttore di Azione contro la fame

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