Paese non sicuro
L'Egitto è il buco nero dei diritti
Dopo la rielezione di al-Sisi nel 2023, si è intensificata l’onda di repressione contro dissidenti e manifestanti. Con arresti, minacce, libertà violate. Come attesta un rapporto all’esame dell’Onu
Egitto, Paese sicuro? Qualche volta, se hai almeno una doppia nazionalità e il governo del tuo Paese riesce a intervenire prima che i servizi di sicurezza ti facciano sparire; come invece è accaduto a Giulio Regeni, il ricercatore di Fiumicello sequestrato, torturato e ucciso nel 2016 al Cairo. A Sherif Elanain, ex pornoattore e cittadino italiano che rischiava tre anni di carcere per l’accusa di «immoralità», è andata bene: è stato scagionato e rilasciato lo scorso 2 gennaio. Non sono altrettanto fortunati i prigionieri che a migliaia affollano le carceri egiziane. Dalle elezioni presidenziali del dicembre 2023, vinte dal presidente in carica Abdel Fattah al-Sisi con il 90 per cento dei voti, si è registrata nel Paese una nuova ondata di arresti e processi. Le autorità politiche e giudiziarie hanno intensificato la campagna di repressione nei confronti dei dissidenti e dei manifestanti pacifici, arrivata al culmine lo scorso luglio con una maxi-retata con centinaia di fermi. L’azione repressiva si è poi estesa fino a fine anno. E continua.
Attraverso arresti massicci e intimidazioni, il regime ha dimostrato, ancora una volta, di non tollerare il dissenso né l’espressione di idee diverse dalle proprie. Dall’aprile del 2022 al novembre del 2024 in 7.426 sono finiti in carcere per la loro partecipazione a manifestazioni non autorizzate, per la diffusione di «notizie false» o per presunti atti di terrorismo.
Un caso emblematico del “bavaglio” imposto a chiunque manifesti una forma di dissenso è rappresentato dal processo contro uno sfidante di al-Sisi, Ahmed al-Tantawy, esponente dell’opposizione, e Abu al-Dayyar, coordinatore della sua campagna elettorale, arrestato assieme a 21 sostenitori del candidato presidenziale poi costretto al ritiro. Le accuse erano in gran parte basate sulla legge n. 45 del 2014, che limita gravemente l’esercizio dei diritti politici.
Gli imputati – i primi due accusati di cospirazione e incitamento alla diffusione di materiale elettorale senza autorizzazione, gli altri di averlo stampato e distribuito – sono comparsi lo scorso 17 dicembre davanti a un tribunale egiziano, il quale ha confermato sia la condanna emessa in primo grado a un anno di carcere per al-Tantawy e al-Dayyar, oltre al divieto di ricoprire incarichi politici per cinque anni, sia le sanzioni economiche per gli altri accusati di reati minori.
Non si tratta solo di repressione politica: anche le manifestazioni di solidarietà per la Palestina sono state soffocate. Inizialmente sostenute da partiti e soggetti filogovernativi, queste proteste sono state vietate non appena hanno iniziato a mescolarsi a richieste di libertà e giustizia sociale. Nell’ottobre del 2024, gli agenti di sicurezza hanno arrestato numerosi manifestanti che si erano riuniti nell’iconica Piazza Tahrir, simbolo della rivolta del 2011. Tra gli arrestati, molti studenti con accuse di terrorismo e partecipazione a riunioni non autorizzate: sei di loro risultano «scomparsi».
Il settore dell’istruzione non è immune da questa repressione. Lo scorso novembre, le forze di sicurezza hanno dispiegato mezzi ed energie per disperdere una protesta di insegnanti contro l’obbligo di accademia militare per chi desidera candidarsi a impieghi pubblici. In quattordici sono ancora detenuti.
Le violazioni sistematiche dei diritti umani in Egitto creano un clima di paura e di silenzio oppressivo, rendendo nulla la possibilità di un cambiamento politico pacifico. Il dibattito pubblico è sempre più rarefatto e le voci dell’opposizione vengono soffocate. I servizi di sicurezza interni egiziani, gli stessi responsabili del sequestro e delle torture che hanno portato alla morte di Regeni, continuano a far sparire decine di persone a settimana anche semplicemente per aver espresso sui social media le loro preoccupazioni. L’atmosfera al Cairo, dove si può pagare cara una sola parola sbagliata, è carica di tensione. Come emerge dal rapporto sulla situazione in Egitto che sarà presentato il prossimo 28 gennaio alla 48^ sessione della Conferenza periodica universale del Consiglio per i Diritti umani delle Nazioni Unite a Ginevra.
La Commissione egiziana per i diritti e la libertà e altre undici organizzazioni non governative sostengono che «l’Agenzia nazionale per la Sicurezza egiziana nell’ultimo anno ha sistematicamente rapito cittadini, tenendoli in stato di fermo in luoghi sotto il suo controllo per lunghi periodi, negando nel contempo di detenerli. Le vittime di queste sparizioni forzate includono attivisti, giornalisti, avvocati e cittadini attivi politicamente, molti dei quali sono stati presi esclusivamente per aver esercitato i loro diritti alla libertà di espressione e di riunione pacifica». Le ong egiziane rilevano che la maggior parte delle persone scomparse riappare con segni di torture davanti alla Procura di Sicurezza dello Stato.
Accusati di appartenenza a un «gruppo terroristico» e di «diffusione di informazioni false che minano la sicurezza nazionale», in base alla draconiana legge antiterrorismo del 2015 e alla legge sul crimine informatico del 2018, da quel momento gli imputati iniziano una lunga fase processuale che viene dilatata con rinvii infiniti.
Un passaggio della relazione evidenzia che «la Procura egiziana non ha mai accusato alcun ufficiale di illeciti legati a sparizioni forzate», denunciando che «la detenzione arbitraria rimane uno strumento di repressione diffuso. Gli individui detenuti arbitrariamente sono spesso trattenuti per mesi o anni senza accusa o processo, con il pretesto di detenzione cautelare che viene ripetutamente rinnovata senza un giusto motivo».
Inoltre – si legge ancora nel testo – coloro che vengono arrestati sono sottoposti a tecniche di interrogatorio dure, inclusa la tortura: pestaggi, scosse elettriche e isolamento prolungato. Le condizioni di detenzione sono spesso disumane, anche a causa del grave sovraffollamento, della scarsa igiene e dell’accesso inadeguato alle cure mediche, con conseguente deterioramento della salute e, in alcuni casi, «morte in custodia». Le misure «punitive», come negligenza medica, divieto per i prigionieri di ricevere visite dei familiari o di comunicare privatamente con i propri avvocati, da parte degli agenti della Sicurezza nazionale continuano anche nelle nuove prigioni costruite in Egitto. Le limitazioni agli incontri tra famiglie e detenuti, introdotte al tempo della pandemia di Covid, vengono ancora applicate nonostante l’emergenza sia finita.
«Tutte queste pratiche violano palesemente la Costituzione dell’Egitto e i suoi obblighi ai sensi del Patto internazionale sui Diritti civili e politici. Non sono mai state adottate misure efficaci per fermare questi abusi o per perseguire i responsabili», conclude il rapporto. Il Comitato Onu contro la tortura, dopo avere visionato la relazione del governo egiziano alla fine del 2023, ha rilevato che «la tortura nel Paese rimane diffusa e sistematica».
Per il 2025 la situazione si prevede ancora più drammatica. Se fosse adottato il nuovo Codice di procedura penale, in fase di definizione, le già scarse garanzie di un processo equo previsto (seppure violato) dalla legge in vigore, con una maggiore concentrazione di potere nelle mani della Procura e delle agenzie di sicurezza, sarebbero pressoché nulle.