MEDIO ORIENTE IN FIAMME
Gaza-Israele la tregua non è la pace
L’accordo tra Hamas e Tel Aviv non mette la parola fine al conflitto. E nel governo dello Stato ebraico è già partita la corsa dei falchi per chiedere la ripresa delle operazioni militari
Il cessate il fuoco approvato è temporaneo. Ci riserviamo il diritto di tornare in guerra». Nelle parole di Benjamin Netanyahu alla vigilia dell’entrata in vigore della tregua a Gaza si è sentita una sorta di ossessione. Il senso dei messaggi pubblici del primo ministro è stato sempre lo stesso, ribadito con parole chiare sia ai media ebraici sia a quelli internazionali: il come e il quando lo decidiamo noi (anche se, ovviamente, «Hamas sarà responsabile di ogni violazione del cessate il fuoco»), questa non è la pace. I 45mila morti gazawi, che secondo un rapporto di Lancet potrebbero essere anche 70mila, sono uno sfondo sfocato e non vengono mai nominati. Per Netanyahu lo scacchiere internazionale è propizio: l’insediamento di Donald Trump, a cui questa tregua sembra essere offerta come dono di benvenuto, la stabilizzazione dei rapporti con la nuova amministrazione di Washington e le strategie comuni da adottare per il Medio oriente e contro l’Iran. «Credo che lavorando di nuovo insieme porteremo l'alleanza Usa-Israele a livelli ancora più alti», ha dichiarato il premier dello Stato ebraico poco dopo il discorso inaugurale del nuovo presidente degli Stati Uniti, a neanche 48 ore di distanza dall’entrata in vigore della tregua. Quasi in contemporanea l’esercito israeliano ha annunciato l’inizio di una nuova operazione militare su vasta scala in Cisgiordania, denominata “muro di ferro”. Hamas a quel punto ha chiamato i palestinesi dei territori occupati all’insurrezione generale.
Se sul fronte estero il cessate il fuoco sembra solo aver spostato gli obiettivi israeliani nell’immediato, nella politica interna a Tel Aviv riaffiora lo scontro per i ruoli principali alla Knesset. Il “controllo dell’intera Striscia di Gaza” è presentato come la priorità dai politici di destra, anche da alcuni ministri del partito del premier: e l’unico calmante per la furia bellicista dei falchi sono gli ostaggi liberati. Infatti, secondo indiscrezioni pubblicate dai giorni scorsi sui media israeliani, Netanyahu avrebbe rassicurato i ministri più oltranzisti sul fatto che dopo la prima fase dell’accordo «la guerra ricomincerà». L’accordo firmato a Doha, grazie alla mediazione di Usa, Egitto e Qatar, prevede tre fasi. Durante la prima, che dovrebbe durare 42 settimane, Hamas rilascerà 33 ostaggi dei 95 ancora in vita. Secondo il primo ministro qatariota Al-Thani si tratterà di «donne e reclute civili, bambini, anziani, malati e feriti civili». In cambio Israele dovrebbe rilasciare quasi duemila prigionieri politici e guerriglieri palestinesi. Il Ministero della Giustizia israeliano avrebbe tra le mani anche un elenco specifico di 737 prigionieri palestinesi che stanno scontando condanne per reati considerati particolarmente gravi tra cui «diversi terroristi arrestati per omicidio, membri di Hamas, della Jihad islamica palestinese e del movimento Fatah». Durante queste prime sei settimane è previsto il ritiro delle forze armate israeliane dalle aree densamente popolate di Gaza per «consentire lo scambio di prigionieri, così come lo scambio dei corpi e il ritorno degli sfollati».
L’esercito di Tel Aviv ha previsto delle aree di “difesa rafforzata” dentro la Striscia che gli permetteranno di rientrare subito se il cessate il fuoco dovesse essere interrotto. Contemporaneamente, sarà permesso ai camion di aiuti umanitari (circa 600 mezzi al giorno) di entrare a Gaza dal valico di Rafah (confine egiziano). Dal sedicesimo giorno dovrebbero iniziare i negoziati per la seconda fase che dovrebbe portare al rilascio di tutti gli ostaggi e al ritiro dei miliSENZA CASA Gruppi di sfollati palestinesi lasciano l’area di Gaza City dopo l’accordo per la tregua tra Israele e Hamas tari dello Stato ebraico dalla Striscia. La terza fase sarà quella della ricostruzione di Gaza e della definizione del suo nuovo status politico e istituzionale.
Nonostante i bombardamenti devastanti che hanno causato centinaia di morti nei tre giorni tra l’annuncio della tregua e l’entrata in vigore della stessa, le dichiarazioni aggressive di molti politici della Knesset e i timori per l’ennesimo dietrofront di Netanyahu all’ultimo minuto, la tregua è effettivamente entrata in vigore alle 11.15 di domenica 19 gennaio. Tre donne israeliane sono state caricate su dei mezzi della Croce Rossa diretti in territorio israeliano. Ha colpito tutti l’immediata apparizione di uomini in uniforme e armati con la fascia verde di Hamas che hanno monitorato le operazioni di scambio e hanno dato bella mostra di sé. Il messaggio è stato chiaro: «Hamas non è morta».
ato chiaro: «Hamas non è morta». Non è la pace. È importante ricordarlo, perché sembra quasi che 471 giorni di guerra a Gaza si siano risolti in uno scontro interno al governo israeliano. Una guerra intestina che influenzerà i prossimi mesi, ma che già lascia intravedere gli schieramenti del futuro e la direzione di Tel Aviv in questa nuova fase storica iniziata il 7 ottobre 2023. Non volevano l’accordo due falchi di estrema destra, ormai ben noti per le loro esternazioni razziste e ultra-violente contro i palestinesi: il ministro della Sicurezza nazionale e leader del partito Otzma Yehudit (Potere ebraico, ndr) Itamar Ben-Gvir e il ministro delle Finanze e capo del partito sionista religioso Bezalel Smotrich. Ben-Gvir si è fatto subito sentire: «Amo il primo ministro Benjamin Netanyahu e farò in modo che resti in carica, ma lascerò il governo perché l'accordo che è stato firmato è disastroso». E l’ha fatto davvero, dopo essersi attribuito il merito di aver fatto fiera opposizione a qualsiasi accordo negli ultimi mesi: «La tregua poteva anche essere firmata a maggio scorso, ma io mi sono opposto». Ma ora Netanyahu è più forte e non teme la crisi di governo. In contemporanea con l’entrata in vigore della tregua, Ben-Gvir e altri due ministri del suo partito, il titolare del dicastero per il Negev e la Galilea, Yitzhak Wasserlauf, il ministro per il Patrimonio Amihai Eliyahu, hanno lasciato i propri incarichi. «Quando vediamo gli applausi di giubilo del sostenitore di Hamas Ayman Odeh (leader della coalizione di partiti arabi israeliani Hadash-Taal, ndr), le danze a Gaza, i festeggiamenti nei villaggi (palestinesi) di Giudea e Samaria, capiamo quale parte si è arresa in questo accordo», ha dichiarato caustico Ben-Gvir, «tuttavia, se la guerra contro Hamas verrà rinnovata con forza per realizzare gli obiettivi di guerra non raggiunti, ci offriremo di tornare al governo».
Ma il capo di Potere ebraico non era solo, anche se forse è stato meno lungimirante degli altri. A poche ore dall’annuncio trionfante della delegazione qatariota sulla firma dell’accordo, Bezael Smotrich aveva attaccato in modo durissimo ogni compromesso. Si era spinto fino a definire la tregua «terribile» e a dichiarare che «non siederò in un governo che, Dio non voglia, fermerà la guerra e non continuerà fino alla completa vittoria su Hamas». A differenza di Ben-Gvir, però, ha cambiato idea: «Purtroppo non siamo stati in grado di impedire questo pericoloso accordo, ma abbiamo insistito e siamo stati in grado di garantire che la guerra non finirà senza raggiungere i suoi obiettivi completi - primo fra tutti la completa distruzione di Hamas a Gaza». Smotrich ha assicurato i suoi di aver «chiesto e ottenuto» da Netanyahu «l’impegno a cambiare completamente le modalità della guerra, anche attraverso una graduale occupazione militare dell'intera Striscia di Gaza e l'abolizione delle restrizioni imposte dall'amministrazione Biden, in modo che gli aiuti umanitari non raggiungano Hamas come hanno fatto finora». Una fonte interna al partito di Netanyahu ha tuttavia smentito al Times of Israel l’esistenza di qualsiasi accordo del genere. Ma sempre la stessa fonte ha aggiunto: «Smotrich vuole prendersi il merito della ripresa della guerra dopo la prima fase, in modo da far passare Ben-Gvir per un idiota. Bibi ha detto di sì. È molto semplice». Anche perché lunedì 20 gennaio, all’indomani del cessate il fuoco, Donald Trump ha subito firmato l'ordine esecutivo per revocare le sanzioni sui coloni israeliani in Cisgiordania e ha parlato di normalizzazione dei rapporti con l’Arabia Saudita e di nuovi equilibri in Medio Oriente. In altri termini, la nuova amministrazione di Washington sarà ancora più vicina a Tel Aviv della vecchia, che pure non aveva mai voltato le spalle a Netanyahu nonostante qualche pubblica reprimenda.
Tra gli altri membri del governo, si registrano delle defezioni anche in seno al Likud, il partito di Netanyahu. In totale 24 ministri hanno votato a favore, 8 contro e uno non si è presentato. Dopo la dipartita di Ben-Gvir e dei suoi, il premier può contare su una fragile maggioranza di 62 parlamentari su 120 ma, per ora, dai partiti Unità nazionale di Benny Gantz e dal leader dell’opposizione Yair Lapid è stato offerto «tutto il supporto necessario» per mantenere in vita l’accordo. Domenica a Gaza City sono scesi in piazza centinaia di palestinesi. Facevano il segno della vittoria con le dita: alle loro spalle un mare di macerie. Contemporaneamente, a Tel Aviv, una folla di israeliani seguiva lo scambio di prigionieri, in diretta su Al Jazeera (bandita ufficialmente da Israele, ma il momento era storico), su dei maxi-schermi montati per l’occasione. Ma dopo la commozione delle prime ore si torna alla realtà: per l’Onu ci vorranno almeno 15 anni per rimuovere le macerie da Gaza e per tornare a condizioni di vita accettabili. Un tempo inimmaginabile per chi, ancora, è attaccato al filo di un cessate il fuoco che può essere infranto in ogni momento.