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23 ottobre, 2025Con 45 anni nell’inferno delle carceri israeliane l'attivista, omonimo di Marwan, è la persona rimasta più a lungo in detenzione per motivi politici. Ma più che delle sue prigioni, in questa intervista parla dei detenuti di oggi, raddoppiati rispetto a prima del 7 ottobre 2023
Ostaggi. Alcune parole si erodono nel tempo come rocce scalfite dalle onde. Dentro di noi, inconsciamente, subiscono cambiamenti continui. Ostaggi. in questi due anni di genocidio, la percezione che avevamo di questa parola è totalmente cambiata. Non più l’immagine di quelli catturati nei film, le chiamate dei rapinatori, le scene di azione per liberarli. “Ostaggi” è divenuta una parola-porta che ha spalancato agli occhi di molti la realtà di una grande catastrofe storica:la questione palestinese.
All’interno di questa tragedia, abbiamo scoperto che esistono prigioni. Quelle a cielo aperto come i campi profughi della Cisgiordania e l’intera Striscia di Gaza e quelle chiuse fatte di celle in cui languiscono migliaia di palestinesi. Donne, uomini, bambini. La pratica di imprigionare i palestinesi senza capi di accusa o con capi d’accusa senza prove e senza processo - detenzione amministrativa - è antica. Risale ai tempi del protettorato inglese e dato che la maggior parte degli arresti avviene in Cisgiordania, territorio occupato militarmente, questo fa delle persone arrestate dei prigionieri di guerra o secondo altre definizioni, prigionieri politici. Israele, per ovvie ragioni, rifiuta questa definizione ma nel frattempo, giudica questi prigionieri, bambini inclusi, all’interno dei tribunali militari.
Noi, per raccontarvi la storia di tutti i prigionieri di guerra palestinesi, per provare a narrarvi qualcosa del loro dramma, abbiamo intervistato Nael Barghouti, considerato il prigioniero politico più a lungo detenuto al mondo. Ha passato, infatti, 45 anni della sua vita rinchiuso nelle carceri israeliane. Lui, però, rifiuta l’appellativo “decano dei prigionieri” perché, dice, non è un merito, né motivo di fierezza essere stato nelle prigioni così a lungo: «L’essere umano non dovrebbe essere ingiustamente privato della libertà, neanche un solo giorno della propria vita». Nella sua storia personale esiste la Storia della Palestina intera. Suo zio, infatti, è stato ucciso durante la grande Rivoluzione palestinese del 1936 e suo padre, sempre in quegli anni, è stato arrestato dalle forze britanniche. Oggi Nael Barghouti è in esilio, in esilio permanente. È stato rilasciato sei mesi fa, ma non potrà mai più entrare in Palestina. E non può neanche ricongiungersi ai suoi parenti. Sua moglie, infatti, e così tutti i suoi familiari non possono uscire dalla Palestina e raggiungerlo in Turchia. In pratica, un altro modo di imprigionarlo, di estraniarlo dal mondo.
La prima volta che l’ho chiamato, ha voluto che assieme a lui, in collegamento, ci fosse anche sua moglie, Eman Sarhan Nafeh. La passione che li unisce e la nostalgia che provano l’uno per l’altra ha attraversato, per l’intera durata della chiacchierata, i cavi elettrici della chiamata. Inizio chiedendogli della sua infanzia, perchè tutti siamo stati bambini, anche quando il mondo vuole farcelo dimenticare. Nael lascia che sia la moglie a parlare. Come se il passato non fosse più suo, ma qualcosa che appartiene al ricordo degli altri. Eman mi racconta che dal villaggio di Kobar, villaggio natale di Nael, un solo pullman al giorno partiva per andare alla città di Ramallah. Nael, un ragazzino curioso di vita, aspettava quel pullman e andava in città a recuperare libri su libri. Storia, letteratura, politica. Amava leggere. Nael sorride. Aggiunge: «In quei libri ho scoperto che i popoli soggiogati dalle occupazioni coloniali han sempre lottato per la propria libertà. In tutti i modi possibili».
E quando sono cambiate le cose? Quando è cominciata la tua lotta?
«Nel 1967, avevo dieci anni. Ho assistito all’occupazione della mia città. Quando l’esercito ha bombardato il cancello d’ingresso di Kobar, sono salito sul tetto assieme a mio fratello Omar e lì abbiamo ammassato delle pietre. Le avremmo lanciate ai soldati, se li avessimo visti passare. Abbiamo rifiutato di alzare la bandiera bianca sul tetto della nostra casa. I profughi del 1948 che conoscevamo ci hanno lasciato molto della loro esperienza. Dal loro dolore abbiamo deciso che noi non saremmo mai andati via».
Dieci anni dopo, nel 1977, Nael viene arrestato e condannato a un periodo di tre mesi in una prigione militare. L’anno seguente, nel 1978 viene arrestato nuovamente assieme al fratello Omar e al cugino Fakhri Barghouti. Un’accusa grave, nessuna prova. Questa volta passa 33 anni ininterrotti nelle prigioni israeliane, per poi essere rilasciato nel 2011 nell’ambito dello scambio di prigionieri Gilad Shalit. Nel 2014, il carcere, nuovamente. Con il ripristino della sua precedente pena all’ergastolo. La causa? Aver parlato pubblicamente nell’università di Beirzeit. Il messaggio di quell’arresto, secondo Nael è chiaro: anche chi viene rilasciato all’interno di un accordo può essere nuovamente arrestato, la minaccia è che non si è mai al sicuro.
Come è la situazione dei prigionieri di guerra palestinesi all’interno delle prigioni israeliane?
«Pessima, orrenda. La volontà è quella di farti credere di essere un animale, di annullare totalmente la tua umanità. Le torture e la fame vengono utilizzate sistematicamente a questo scopo. Oltre ai bastoni, vengono utilizzati i cani che torturano. Come importano le armi, importano i cani violenti dal Belgio e dall’Olanda e li scagliano contro ai detenuti. Ti picchiano continuamente, anche mentre ti fai la doccia, mentre sei nudo. Il cibo viene razionato al minimo per la sopravvivenza. Ti senti un fantasma. Allora cominci a fare scioperi della fame. Eravamo in una condizione di lotta permanente. Per poter vedere un parente facevamo scioperi della fame, per poter ottenere qualsiasi diritto, scioperavamo. Molti amici sono morti a causa di questi scioperi. Quella è una forma di resistenza all’interno delle prigioni. Io, in tutto, sono stato in sciopero della fame per 730 giorni».
Anche sua moglie mi racconta della sua esperienza. Lei è stata in prigione per dieci anni. «Una forma di tortura nei confronti delle donne è privarle del tutto dei loro vestiti e picchiarle da nude». Mi racconta di un episodio, mi dice che durante le feste religiose le guardie si appostano nei cortili e controllano che nessuno si scambi gli auguri. Scambiarsi anche solo un augurio di festa significa subire torture, lanci di lacrimogeni. Omaima, una sua compagna di cella, ha avuto una figlia durante la detenzione e quella bambina è stata nella stessa cella con loro. Non portavano cibo specifico alla bambina, nè la facevano uscire dalla cella.
Come è cambiata la situazione nelle prigioni dopo il 7 ottobre?
«Lo spirito dei nostri torturatori era quello della vendetta. La stessa punizione collettiva che si è abbattuta su Gaza ha colpito anche noi. Ci hanno isolati ancora di più dal mondo, ai nostri parenti hanno impedito le visite. Gli stessi avvocati erano sottoposti a severi controlli. Non potevano portarci notizie dei nostri cari, consegnarci lettere nascoste, foglietti. Non dovevamo sapere nulla di ciò che accadeva fuori. Se prima razionavano il cibo al minimo per la sopravvivenza, dopo il 7 ottobre la fame è divenuta una forma di tortura ufficiale. Io ho perso all’incirca 20 kg. I nostri visi, i visti dei miei compagni sono cambiati, i nostri corpi, i nostri occhi giorno dopo giorno erano sempre più infossati. Il poco cibo che ci davano, molte volte, era avvelenato».
Lui stesso racconta di essere stato avvelenato due volte. «La violenza della tortura inflitta ai detenuti ha portato alla morte di 78 persone all’interno delle prigioni dal 7 ottobre 2023, e questo è solo il numero ufficiale». Mi racconta che esiste una cosa che si chiama “wajbet al istiqbal”, il pasto di benvenuto. Qualunque nuovo prigioniero, che sia bambino, uomo o donna, riceve un benvenuto fatto di botte, percosse violentissime. Affinchè possa subito capire cosa lo attenderà. A chiunque entra, rubano tutto. Orologi, scarpe, persino la fede nuziale, tutto viene rivenduto. Perchè ciò che eri, che sei stato fino a quel momento, deve sparire. Vieni annullato come persona. Mi racconta di Ahmad Ikhdirat, un ragazzo di soli 22 anni, malato di diabete. Non poteva curarsi, non gli era concesso prendere nessuna medicina. Non solo lui. Quella di non poter ricevere cure è una vera e propria politica all’interno delle prigioni israeliane. «L’hanno torturato fino ad ucciderlo. Dentro alle celle era normale vedere uomini totalmente insanguinati, con emorragie interne in corso e quelle celle erano spazi claustrofobici, perché dopo il 7 ottobre il numero dei detenuti è raddoppiato».
Le campagne di arresti condotte dalle forze di occupazione contro il popolo palestinese, infatti, sono state intense dal 7 ottobre 2023. Si stima che prima di quella data, i prigionieri di guerra palestinesi fossero 5.200 circa e che dopo il 7 ottobre il numero sia salito ad oltre 11.100 secondo i dati della Palestinian Prisoners’ Society (Pps) che sottolinea come si tratti del numero più alto di detenuti dopo la seconda intifada del 2000. Di questi, all’incirca 500 sono minorenni e subiscono le stesse violenze riservate agli adulti. A questo numero bisogna aggiungere quello dei cittadini di Gaza rinchiusi in alcune basi militari.
Quando Nael mi racconta delle torture nelle prigioni è molto sbrigativo. Non entra nei dettagli, il suo racconto è un lungo elenco di situazioni vissute: le malattie della pelle molto frequenti, i prigionieri ammalati che non venivano isolati ma che anzi, venivano fatti girare per le celle per contagiare tutti, posizioni disumane che dovevano assumere per ore, a volte per giorni, molestie verbali, fisiche. Quando gli chiedo quali esattamente non risponde. È molto trattenuto. Sento che ci sono tante cose che potrebbe raccontami ma che non vuole dirmi. Sembra sorvolare i dettagli più brucianti.
E le celle d’isolamento? Lui minimizza. Inizialmente mi dice: «Ci sono stato solo qualche mese, forse quattro in tutto. Ho compagni che sono stati dentro molto di più. Hanno sofferto molto di più di me». Insisto. Risponde: «Dopo il 7 ottobre essere lanciati in una cella d’isolamento è divenuta una pratica ancora più frequente. Senza materasso, senza coperta. Senza nulla. Quando sei dentro a una cella minuscola, da solo, pur di non impazzire e di non perdere la tua umanità, parli con gli scarafaggi. Devi parlare con qualcuno, altrimenti ti senti morire. Ce ne sono così tanti che ti stanno attorno, che ti ricordano che quello è il loro posto, non il tuo». Solo questo. Allora tento con una domanda sulla speranza.
E la speranza? C’è qualcosa che lì dentro ti ha aiutato a sentirti vivo?
«La speranza era solo in Dio. Qualcosa, sì. Un albero di limoni che ho fatto piantare a mia madre. Mi sono procurato un seme e gliel’ho fatto avere. Quando veniva a trovarmi le davo dell’acqua per annaffiarlo. I nostri villaggi in Cisgiordania non sono famosi per gli alberi di limone o di arance. Quelli sono piantati nelle coste di Haifa, Yafa, Akka. Mentre io ho voluto piantarne uno a Kobar, che guardi verso il mare della Palestina per essere un simbolo: un profugo che guarda verso le coste palestinesi, verso la nostra causa più grande, quella del diritto al ritorno, e dice “sanaudu yawman”, torneremo, un giorno. Sono stato trasferito in moltissime prigioni, forse in tutte le prigioni della Palestina. A ogni persona che veniva a trovarmi chiedevo di prendere un pugno di terra dal luogo in cui stava la prigione e di posare quella terra sulla base dell’albero. Quell’albero di limoni è cresciuto alimentato da tutta la terra palestinese. È un messaggio forte, per chi sa coglierlo».
Lo sento sollevato mentre mi parla di questo. Nei suoi anni in prigione ha fatto crescere qualcosa fuori, una vita. Un albero nutrito da lui, piantato in tutta la terra palestinese, che rappresenta un profugo, un’intera causa. Aggiunge: «E poi l’amore. Mia moglie, che ho sposato nel 2011, e con la quale ho potuto passare solo 31 mesi di vita apparentemente normale, lei mi faceva sentire vivo. Una moglie è un prolungamento di te. E quando lei è libera, parte di te si sente così».
Se non fossi stato un prigioniero per la tua intera vita, cosa saresti stato? Forse un professore, vista la tua passione per la storia, la letteratura?
«No, un agricoltore. La nostra terra, questa terra che ha bevuto il sangue di così tanti martiri, ha anche bisogno di essere curata, merita di essere coccolata, visto tutto quello che ci dà. Non mi piacciono i titoli. Non mi interessano. Mi interessa il rapporto con la terra. Voglio mandare un messaggio ai giovani: date valore al watan, alla vostra terra, non date troppo valore ai titoli, siate un messaggio di umanità».
Parliamo molto, della sua famiglia, dei suoi genitori morti durante la sua detenzione, che non ha potuto salutare. Della vita che fuori scorre senza chiederti il permesso. Delle persone che ha incontrato in prigione, della sofferenza condivisa, che rende le amicizie che si costruiscono all’interno delle prigioni così diverse da qualsiasi altra amicizia al mondo. Mi dice che soffre per i suoi compagni ancora in detenzione e mi racconta che prima di rilasciarlo, proprio lo stesso giorno, l’hanno picchiato così brutalmente da rompergli le ossa delle costole: «Odiano l'idea di dover concedere libertà a un palestinese». Gli pongo un'ultima domanda, immaginandolo solo, esiliato ed isolato in una terra che non conosce. La risposta mi ammutolisce.
La condizione di essere in esilio, ora, come la vivi? Anche questo fa parte della lotta?
«Chi ti ha detto che non sono in Palestina, ora?». Lo dice così convinto che non comprendo. Ho forse capito male? Continua: «Io sono in Palestina con tutto me stesso. Tutti i miei sensi sono in Palestina, tutti i miei sentimenti. Sono qui solo col corpo. Sono in Palestina anche se fossi su Marte. Ogni giorno chiamo mia moglie e lei mi mostra il mio campo, il mio albero di limoni, la luna che splende sui nostri villaggi e io li saluto e mi sento in Palestina, io sono lì».
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