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28 ottobre, 2025Per la prima volta il premier dell’isola artica è intervenuto al Parlamento Europeo. Per rinsaldare un legame diretto. Sull’onda delle mire americane e degli appetiti di Pechino
«La Groenlandia ha bisogno dell’Europa, e l’Europa ha bisogno della Groenlandia». Con questa frase, il primo ministro Jens-Frederik Nielsen ha chiuso il suo intervento davanti al Parlamento europeo all’inizio di ottobre, il primo nella storia di un leader groenlandese a Strasburgo. Ma dietro l’applauso si nasconde una consapevolezza: l’isola di ghiaccio è diventata un fronte geopolitico, un nodo vitale di risorse e sicurezza, dove si incrociano le ambizioni di Washington, Pechino e Bruxelles.
Il discorso di Nielsen, che sotto la giacca grigia indossava una camicia tradizionale Inuit, il kuspuk, color blu elettrico, simbolo identitario del suo popolo, non è stato retorico. È stato un elenco di urgenze. «Il mondo sta cambiando rapidamente», ha detto. «E la Groenlandia non è estranea al cambiamento». Oggi l’isola, formalmente parte del Regno di Danimarca e per Bruxelles un Territorio d’Oltremare, controlla 24 dei 34 minerali critici individuati dalla Ue. Tra questi, terre rare, uranio e rame. Secondo l’Istituto spagnolo per gli studi strategici (Ieee), le riserve groenlandesi potrebbero coprire fino al 20 per cento della domanda mondiale di terre rare. In un momento in cui Pechino domina il 70 per cento dell’estrazione e il 90 per cento della lavorazione globale, quel dato vale quanto un’arma strategica.
Da colonizzata a nuovo partner strategico della Ue
Nel 2023, Bruxelles e Nuuk hanno firmato un partenariato sulle catene sostenibili del valore per le materie prime. È stato il primo tentativo europeo di ridurre la dipendenza cinese. «Considerando la situazione di sicurezza mondiale e la transizione verde, è tuttavia necessario agire più rapidamente», ha detto Nielsen agli europarlamentari: «I minerali critici della Groenlandia hanno il potenziale di modificare gli equilibri globali e di sicurezza ma serve agire presto. La Groenlandia è pronta a muoversi con la Ue per accelerare il passo». Dietro la formula, c’è un’urgenza che a Bruxelles chiamano “panico strategico”: se l’Europa non si muove, qualcun altro lo farà. E in effetti, qualcuno ci ha già provato.
Lo scorso agosto il governo danese ha convocato il massimo rappresentante americano a Copenaghen dopo che alcuni emissari vicini a Donald Trump erano stati scoperti a condurre operazioni d’influenza con esponenti politici e stampa sull’isola artica. «È inaccettabile che attori stranieri tentino di interferire con il futuro dell’isola», ha dichiarato il ministro degli Esteri Lars Løkke Rasmussen. Da parte sua, appena eletto, Trump, che durante la prima presidenza aveva già tentato di acquistare l’isola, ha annunciato che adesso «gli Stati Uniti non escludono alcuna opzione».
La Cina non è benvenuta
Il ritorno della dottrina del possesso artico americano ha creato un effetto domino. Pechino ha reagito intensificando i contatti con Nuuk: già nel 2020 il 19 per cento delle esportazioni groenlandesi era diretto in Cina, e la compagnia statale Shenghe Resources aveva acquisito una quota (intorno al 7 per cento) di Energy transition minerals, ex Greenland minerals limited, che gestisce il progetto minerario di Kvanefjeld, il più grande giacimento di terre rare fuori dall’Asia, e vede l'Australia come principale azionista con il 17 per cento del capitale.
Ma l’ingresso di Pechino nell’azionariato e il timore dell’impatto ambientale di un simile progetto, ha scatenato una crisi politica interna, costringendo nel 2021 alle dimissioni il governo socialdemocratico Siumut, che era al potere dal 1979, e eleggendo il partito della sinistra ecologista Inuit Ataqatigiit (Ia). Da allora, la Groenlandia ha vietato l’estrazione di uranio, congelando il progetto. Quest’anno c’è stato un altro cambio della guardia in cui è diventato primo ministro il leader del partito indipendentista di centrodestra Naleraq, guidato dal giovane Nielsen, in coalizione sia con gli ecologisti, sia con i socialdemocratici.
Il terremoto politico groenlandese è il risultato della rinnovata attenzione mondiale sull’isola in un momento in cui la sua posizione geografica e i suoi giacimenti di materie prime l’hanno resa strategica. Non più remoto avamposto coloniale, ma potenziale cuore freddo d’Europa.
Gli Inuit: sviluppo sì, sfruttamento no
I suoi 57 mila abitanti (al 90 per cento Inuit) però non vogliono diventare «il giacimento del mondo»: puntano il dito sulle altre ricchezze che la Groenlandia ha da offrire – le risorse idriche, la pesca e il turismo, con lo scioglimento dei ghiacci praticabile – e chiedono come contropartita investimenti in campo infrastrutturale, per esempio con la costruzione di un secondo aeroporto e con la digitalizzazione di una parte del territorio, e aiuti per la formazione dei giovani.
La Banca europea per gli investimenti (Bei) ha già inserito nel suo portafoglio un prestito quadro per il programma idroelettrico groenlandese, che include la costruzione della centrale da 76 MW “Buksefjord 3 HPP” a circa 30 chilometri a Est della centrale Buksefjord 1 tra il 2025 e il 2030, con l’obiettivo di incrementare la generazione elettrica verde e gradualmente ridurre l’uso di generatori diesel obsoleti. E ora guarda ai giacimenti.
Pur avendo grandi potenzialità, la Groenlandia non ha infatti i capitali e le conoscenze sufficienti per sfruttarlo. Il suo Pil è di poco più di tre miliardi di dollari, e ancora oggi il 90 per cento delle esportazioni deriva dalla pesca. Il sussidio annuale danese di 520 milioni di euro che copre il 60 per cento del bilancio pubblico resta vitale. Così come lo sono l’infrastruttura sanitaria danese e le sue università. Il sogno dell’indipendenza, pur condiviso da tutti gli abitanti, resta lontano: semplicemente non se lo possono permettere. Se gli abitanti avevano votato per uscire dall’ex Comunità economica europea nel 1985 e per anni, fino al 2024, si sono rivolti agli Usa, e in maniera minore alla Cina, come partner commerciale e politico pur di liberarsi dal giogo danese, adesso guardano finalmente con favore a una maggiore integrazione con Bruxelles, dove hanno un ufficio di rappresentanza dal 1992.
Ad aiutare il cambio di sentimento, oltre all’aggressivo atteggiamento americano, che ha scatenato il panico tra tutti i partiti, è stato il diverso atteggiamento da parte di Copenaghen, ben consapevole della posta strategica in gioco. Nel 2009 aveva concesso a Nuuk il controllo sulle sue risorse naturali, la sanità, l’educazione, la polizia, tramite l’Atto di autogoverno. Quest’anno ha saputo riconoscere gli errori del passato. La prima ministra Mette Frederiksen ha offerto le scuse per la sterilizzazione forzata condotta dalla Danimarca sulle donne Inuit negli anni Sessanta e Settanta: «Non possiamo cambiare quello che è successo ma possiamo assumerne la responsabilità. Quindi, in nome della Danimarca, chiedo scusa».
Bruxelles negli ultimi mesi non ha perso occasione per sottolineare come sia corretta e affidabile, rispettosa delle identità locali, a differenza di Cina e Usa: esattamente quello che gli Inuit si vogliono sentire dire. «La Groenlandia si fonda sulla cooperazione e sul desiderio di collaborare basandosi su valori come l’uguaglianza e il rispetto», ha detto Nielsen ai deputati europei: «Questo resta oggi il cuore della Groenlandia, anche nei nostri rapporti con il mondo esterno».
Nel 2024 la Commissione europea ha aperto un ufficio permanente a Nuuk e lo scorso settembre ha proposto di raddoppiare il sostegno finanziario, da 32 a 76 milioni di euro l’anno a partire dal 2028. Bruxelles ha anche offerto un pacchetto di 530 milioni di euro per infrastrutture, energia idroelettrica e digitalizzazione. «Noi veniamo in Groenlandia non con richieste o pretese», ha detto la presidente del parlamento europeo Roberta Metsola, accogliendo il leader groenlandese, «ma con spirito di rispetto reciproco e amicizia in un momento in cui la sicurezza e la stabilità, che una volta davamo per scontate, non sono più certe. Per decenni, l’Accordo di partenariato sostenibile sulla pesca tra Ue e Groenlandia è stato un modello di gestione responsabile delle risorse, cooperazione scientifica e stabilità a lungo termine nella regione artica. L’Europa è pronta a costruire su queste basi, dai materiali critici all’idroelettrico e alle energie rinnovabili. Insieme possiamo tracciare una nuova rotta verso un commercio sostenibile, basato su benefici reciproci e valori condivisi».
Con l’invasione russa dell’Ucraina e il conseguente collasso del Consiglio artico, con la corsa alle terre rare e con l’inedita convergenza di interessi politici di Usa e Russia, la Groenlandia è diventata una questione di sopravvivenza geopolitica per l’Europa.
L’isola siede al centro del triangolo che unisce Russia, America e Continente europeo, e controlla l’accesso al corridoio Giuk (acronimo di Greenland, Iceland e United Kingdom), il collo di bottiglia attraverso cui devono transitare le navi e i sottomarini che vogliono spostarsi tra l’Atlantico e l’Artico. La base di Pituffik, costruita dagli Usa e tuttora operativa, è parte dello scudo antimissile americano. Ma in caso di crisi, quella base diventerebbe anche una piattaforma logistica della Nato. E la cosa preoccupa non poco sia la Groenlandia sia la Danimarca. «Lo status quo non è più un’opzione», ha ammesso il danese Rasmussen dopo il blitz improvviso alla base lo scorso 19 settembre del vicepresidente americano J.D. Vance insieme al consigliere per la sicurezza nazionale Mike Waltz e al segretario all’energia Chris Wright, pochi giorni prima dell’intervento di Nielsen al parlamento europeo.
L’isola è geologicamente americana ma politicamente europea. L’Europa ha davanti un’occasione unica: non può permettersi di perdere tempo per diventare il partner definitivo della Terra di ghiaccio. L’Artico non è più una cartolina bianca ma una mappa di potere che cambia forma ogni estate. E se Bruxelles vuole continuare a considerarsi potenza globale, dovrà passare anche da lì dove il ghiaccio si scioglie tre volte più velocemente che altrove. E il futuro dell’Unione si misura in gradi Celsius.
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