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10 ottobre, 2025L’ex vicepresidente prova a rilanciarsi. Ma la sua parabola, raccontata in un memoir, evidenzia tutti i limiti di un partito che non si espone più, troppo prudente per guidare una svolta
«Come si fa a non essere pessimisti, guardando l’America di oggi?», si chiede rassegnato Norman Solomon, voce storica della sinistra progressista e direttore dell’Institute for Public Accuracy. Cita Antonio Gramsci, come per aggrapparsi a un filo di lucidità: «Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà». Il suo è il sentimento che attraversa l’anima democratica: smarrimento, stanchezza, paura di non riuscire più a parlare al Paese reale. Donald Trump è tornato nello Studio Ovale e il partito democratico non ha ancora trovato una risposta credibile. Nel frattempo, Kamala Harris, con il suo memoir “107 Days”, tenta di riprendersi la scena e forse di preparare la strada a una nuova corsa presidenziale nel 2028.
Le trecento pagine del libro sono insieme il racconto di una sconfitta personale e la dissezione di un apparato politico disorientato. L’ex vicepresidente, oggi in tour negli Stati Uniti, ripercorre la campagna elettorale del 2024: una corsa contro il tempo, iniziata dopo il ritiro di Joe Biden e affrontata in ticket con il governatore del Minnesota Tim Walz nel tentativo, fallito, di fermare Donald Trump e il suo vice, JD Vance. Un’avventura feroce e breve, segnata da errori tattici e fratture interne. Qualcuno l’ha definita un’operazione di “autocritica controllata”. Certo, Harris si mostra più umana di quanto l’immagine pubblica avesse lasciato intuire, racconta persino gli screzi con il marito Doug Emhoff. Ma la sua spiegazione del disastro («non abbiamo avuto abbastanza tempo»), consumato pur avendo raccolto e speso 1,5 miliardi di dollari, convince pochi. La pubblicazione, a sei mesi dalla sconfitta, ha riaperto vecchie ferite e rilanciato il dibattito sul destino del partito. Sullo sfondo, l’America di Donald Trump: il governo paralizzato dallo shutdown, le guerre commerciali dei dazi, il welfare rosicchiato dopo la finanziaria “One Big Beautiful Bill”, la lotta durissima contro immigrazione e diversità, e una società attraversata da fratture sempre più profonde. È in questo scenario che Harris tenta il difficile ritorno. Ma la stessa prudenza che ne aveva segnato la carriera continua a caratterizzarla. «Un amico dice che ascoltarla è come sentire qualcuno programmato dall’intelligenza artificiale», ironizza Solomon, quando lo raggiungiamo. «Cerca sempre la posizione più neutra, più superficiale, ma che sembri accettabile. Evita i rischi, non si espone. Ha fatto marcia indietro su troppe questioni, dal fracking alla politica estera. E il problema è che nessuno sa più per cosa si batta davvero».
L’esempio più emblematico è quello mediorientale, riportato anche da Jake Tapper e Alex Thompson in “Original Sin”. Secondo gli autori, Harris avrebbe manifestato in privato forti perplessità sulla guerra di Israele contro Hamas, senza però mai prendere le distanze in pubblico dalla linea dettata da Joe Biden, neppure quando il bilancio delle vittime civili a Gaza continuava a salire. Un boomerang politico, che ha incrinato i rapporti soprattutto con i giovani e i progressisti. Per molti analisti, questo passo falso peserebbe come un macigno su una sua nuova corsa. «In campagna elettorale lo scorso anno, gran parte della base elettorale del partito democratico era irritata per la guerra a Gaza, me compreso. Eppure, l’allora candidata fece della “gioia” il tema centrale del suo discorso e della sua presenza alla Convention. È stato un totale cortocircuito», osserva Solomon.
Nel memoir Harris prova a chiarire il suo rapporto con Biden. Col senno di poi, definisce “imprudente” la sua ricandidatura, ma giustifica il proprio silenzio come gesto di lealtà. Una lettura che però non accontenta i critici: lo stesso riflesso di opacità che da anni appanna l’immagine dei dem continua a minarne la credibilità. «Non manca trasparenza», replica Michael Hardaway, stratega del partito ed ex consigliere del leader della minoranza alla Camera, Hakeem Jeffries. «Ma serve più responsabilità, soprattutto sugli errori della campagna del 2024». Concede, però, un punto: «Nonostante tutto, gli elettori continuano a respingere Trump. I democratici restano il partito che si batte per l’americano medio». L’obiettivo più immediato sono le elezioni di metà mandato del prossimo anno. «È su questo che dobbiamo concentrare tutte le energie - avverte - perdere le midterm non è un’opzione. Per la salute stessa della democrazia, è essenziale restare uniti e focalizzati su questo traguardo». Harris mantiene un consenso fragile. Più dell’80 per cento dei dem approva il suo operato, ma questo sostegno sembra dovuto più all’avversione per l’attuale presidente che a un entusiasmo autentico. Nei sondaggi interni, il quadro si ribalta: il governatore della California Gavin Newsom la supera in quasi tutte le rilevazioni: di due punti per Yahoo News, sedici per Atlas, addirittura quattordici per Emerson College, dove scende all’11 per cento, contro il 25 per cento di Newsom e il 16 per cento di Pete Buttigieg, ex ministro dei trasporti. Solo Morning Consult la colloca in testa.
Il dilemma resta lo stesso: come convincere un partito in cerca di autenticità che la fedeltà all’establishment possa coincidere con il cambiamento? «Kamala Harris è una figura storica, la prima vicepresidente nera, la prima donna vicepresidente, ma non so se sarà la nostra candidata nel 2028», ammette Hardaway. «Servirà qualcuno capace di ispirare, di unire e anche di parlare globalmente». Qualcuno che ricordi nella sostanza Barack Obama, per cui lo stratega ha lavorato. «Quando arrivò alla Casa Bianca nel 2009, il mondo era deluso e diffidente nei confronti dell’America, a causa della guerra in Iraq e della presidenza di George W. Bush. L’economia era in condizioni disastrose. Obama arrivò e disse all’Europa, all’Asia e agli altri partner: “Siamo ancora vostri amici. Quello che è accaduto con il precedente presidente non rappresenta ciò che siamo davvero”». Intanto, però, come nota Solomon, è a sinistra che si sente l’energia viva del partito. Alexandria Ocasio-Cortez continua a crescere nei consensi, Bernie Sanders conserva un seguito leale, e figure emergenti come Zohran Mamdani a New York danno voce a un’agenda più radicale, centrata su giustizia sociale, lavoro e diritti civili. Il partito democratico si trova oggi di fronte a una prova decisiva: da una parte deve affrontare i propri limiti strutturali, dall’altra deve riuscire ad arginare l’avanzata di una destra repubblicana che ha cambiato pelle, più compatta, aggressiva e determinata a ridefinire le regole del gioco.
«Credo che il partito stia vivendo una crisi d’identità non così diversa da quelle del passato», sostiene Norman Solomon. «La differenza è che oggi alla Casa Bianca c’è un presidente con una mentalità fascistoide, che ha infranto innumerevoli regole cui tutti i suoi predecessori avevano sempre aderito, alcune legali, altre non scritte ma consolidate». Kamala Harris, con la sua storia e le sue ambiguità, finisce per incarnare la crisi del partito che rappresenta: troppo prudente per guidare una svolta, troppo legata al passato per ispirare il futuro. E se i democratici non troveranno presto una visione, e un candidato capace di parlare davvero al Paese reale, saranno i conservatori, ancora una volta, a scrivere la prossima pagina di storia.
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