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13 novembre, 2025Trent'anni fa gli accordi di Dayton posero fine al conflitto in Bosnia-Erzegovina. Ma crearono un sistema discriminatorio, che ha congelato le divisioni etniche e favorito corruzione e nepotismo
Mir. È così che serbi, croati e bosniaci dicono “pace”. Quella che trent’anni fa pose fine alla guerra in Bosnia ed Erzegovina, dopo un conflitto durato tre anni e costato la vita a quasi 100mila persone. La guerra in Bosnia scoppiò nel 1992 dopo la proclamazione dell’indipendenza del Paese, in un clima di tensioni etniche e spinte nazionalistiche, esasperate dall’intervento di Serbia e Croazia.
Una guerra fatta di pulizia etnica, aggressioni mirate, interessi esterni. Una guerra che fece conoscere al popolo bosniaco, e al mondo intero, l’assedio più lungo della storia contemporanea, quello di Sarajevo, il primo genocidio in Europa dalla Seconda guerra mondiale e innumerevoli atrocità commesse da tutte le parti in conflitto. Gli accordi raggiunti nella base americana di Dayton il 21 novembre 1995, e formalizzati il 14 dicembre successivo a Parigi, misero fine alle violenze più devastanti delle “guerre jugoslave”. A Dayton (Ohio) i presidenti di Bosnia, Croazia e Serbia, raggiunsero un’intesa pacifica sotto l’egida di Onu e Stati Uniti. E per lo Stato balcanico si decise un assetto federale, con due entità distinte ma unite: la Federazione di Bosnia ed Erzegovina (a maggioranza croata e bosgnacca) e la Repubblica Srpska (a maggioranza serba).
In seguito, sarebbe stato istituito il distretto di Brčko, formalmente parte di entrambe le entità. Una struttura istituzionale complessa e articolata, che il professore Zdravko Grebo definì «sistema Frankenstein», fatta di una presidenza tripartita, un centinaio di ministri e quasi 800 parlamentari tra livello statale, federale e municipale. Il tutto vigilato dall’Alto Rappresentante Onu, tuttora massima autorità civile del Paese. Un sistema che andò a congelare lo stato di fatto, permettendo il perdurare delle divisioni etniche e lo scontro tra nazionalismi.
Secondo Velma Šarić, presidente del Post-Conflict Research Center di Sarajevo, l’attuale struttura statale, troppo burocratica e priva di un senso diffuso di responsabilità politica, ha portato alla diffusione di corruzione e nepotismo, radicati ormai in tutti gli aspetti sociali, dagli appalti pubblici, all’occupazione, dalla sanità e ai servizi sociali. «Questa complessità ha portato più divisioni che integrazione. E il quadro costituzionale scaturito dagli accordi è stato dichiarato intrinsecamente discriminatorio da vari organismi internazionali».
Tutto ciò, oltre alle divisioni etniche e alla retorica nazionalista, ha spinto oltre un milione di persone a lasciare il Paese in cerca di migliori opportunità. «Non solo giovani, ma intere famiglie hanno abbandonato le proprie case», riferisce Šarić. L’ordine deciso a Dayton si riflette ancora oggi sulla popolazione bosniaca, sui giovani soprattutto. I bosniaci nati dopo il 1995 non hanno conosciuto la guerra, certo. E questo è il risultato più grande raggiunto grazie agli accordi. Ma sono stati questi stessi accordi, decisi per altro a migliaia di chilometri di distanza dalla loro terra, a consegnargli un Paese cristallizzato in un sistema che troppo spesso ormai non riesce a garantire prospettive di futuro, né valide alternative all’emigrazione.
Imran Pašalić è il presidente del parlamento studentesco dell’Università di Sarajevo. Anche lui denuncia la marginalità dei giovani e la crescente emigrazione nel suo Paese, «un esodo che sta infliggendo danni sostanziali a lungo termine al tessuto sociale e ne sta minando la sostenibilità». Avere vent’anni oggi in Bosnia vuol dire sentire un grande senso di responsabilità sulle proprie spalle: «Nascere dopo l’aggressione alla Bosnia ed Erzegovina è un pesante fardello storico», dice Imran. «In Bosnia ed Erzegovina viviamo in una pace ingiusta, una pace che, per molti versi, ha premiato i responsabili del genocidio. Questa è una ferita profonda, che non può guarire in tali circostanze». La storia che Imran racconta è simile a quella di molte famiglie bosniache: «Sono nato e cresciuto a Sarajevo, la città più bella al mondo. I miei genitori avevano la mia età quando era sotto assedio. Mio padre difese Sarajevo, come tutti gli altri membri maschi della mia famiglia, mentre le donne contribuirono come personale medico. Oggi vivo liberamente grazie a tutti loro. Ecco perché sento la profonda responsabilità di ricordare tutti quegli eroi. Sono stato cresciuto amando e rispettando gli altri, soprattutto quelli diversi da me. Questo è il mio obbligo morale, nei loro confronti e nei confronti della mia patria».
Nell’ambiente universitario Imran non sente particolari divisioni tra i suoi coetanei. Racconta, però, di un episodio che lo ha profondamente colpito. Due studenti provenienti dalla Repubblica Srpska sono stati sorpresi mentre inneggiavano a criminali di guerra, minacciando altri studenti e celebrando il ripetersi delle atrocità contro di loro. L’università di Sarajevo ha poi espulso e interdetto dagli studi i due individui. «Ciò che è preoccupante è che, in seguito a ciò, i due individui hanno ricevuto borse di studio complete per studiare in Serbia, concesse personalmente da Aleksandar Vučić, l’attuale presidente della Serbia, fungendo da ricompensa per le loro azioni», riferisce Imran. Un caso isolato, che però mostra come i germi del nazionalismo non siano completamente scomparsi, neanche tra i più giovani. Se Imran potesse «riscrivere Dayton», ripenserebbe l’intero assetto dato al Paese. «Abolirei le entità e ristrutturerei l’organizzazione amministrativa del Paese in base a caratteristiche geografiche, indicatori socioeconomici e demografici, non su criteri etnico-politici. Soprattutto non sulla politica del genocidio, che ha portato alla creazione delle entità attuali», dice. «Con una struttura del genere, la Bosnia sarebbe diventata membro dell’Unione europea molto tempo fa e si sarebbe sviluppata a un ritmo molto più rapido».
La speranza nei giovani bosniaci, però, è viva. Lo dimostra Dragan Jerković, presidente dell’organizzazione giovanile “Mladi Grade Budućnost” (I giovani costruiscono il futuro), con sede a Ribnik, nella Repubblica Srpska, che incoraggia i giovani a impegnarsi nella società e nella comunità locale, promuovendo tolleranza, dialogo e solidarietà. «Vogliamo dare ai giovani l’opportunità di credere in se stessi e di rimanere nel nostro Paese, costruendovi un futuro migliore», dice Dragan. E malgrado molti continuino a non fidarsi delle istituzioni politiche, percepite come lente, corrotte e chiuse, realtà come queste dimostrano come i giovani possano lanciare iniziative proprie e come il cambiamento possa venire anche dal basso. E intanto, Dragan sorride al futuro: «Rimango ottimista. Credo che la nuova generazione, libera da vecchie divisioni, porterà nuova energia e valori che guideranno verso una società più stabile e giusta. Il nostro ruolo è quello di sostenerli e dare loro lo spazio per mostrare ciò che sanno e possono realizzare».
Le difficoltà per i ragazzi bosniaci permangono, e non sarà di certo Dayton a risolverle. È evidente come il sistema istituzionale ereditato dai loro genitori non basti più, o forse non è mai bastato. Finché lo stato delle cose rimarrà tale, non resta che unire ciò che altri hanno diviso, superando le differenze che hanno portato fin qui. E in un mondo che ha ancora bisogno di veri accordi di pace, Dayton ricorda a tutti quanto sia ancora possibile cambiare.
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