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26 novembre, 2025Il ricatto alle università ha l’obiettivo di dettare la linea e neutralizzare la cultura woke. Fronte del no compatto ma emerge la necessità di dare più spazio alle idee liberal
Se quello a cui assistiamo non è uno smantellamento totale, è quantomeno un attacco frontale al sistema universitario. Lo stesso sistema che ha alimentato la cooperazione internazionale e abbattuto le barriere che per decenni avevano frenato il progresso scientifico globale». Quando lo intercettiamo, Jeremy Young è immerso fino al collo nel suo lavoro di consigliere strategico dell’American association of colleges and universities, trascinato dal vortice di questo momento storico. «La Casa Bianca tiene in ostaggio un programma di grande successo, che genera ricchezza, conoscenza, cultura e benefici concreti per gli Stati Uniti. Lo usa come arma politica».
Tempi duri per chi, come lui, si occupa della difesa di libertà e autonomia degli atenei. Nell’America di Donald Trump, il mondo accademico è oggi al centro di una pressione senza precedenti. Da quando ha messo piede nello Studio Ovale, il presidente ha dichiarato guerra alle università ribelli, congelando miliardi di fondi federali destinati alla ricerca, limitato l’accesso agli studenti internazionali. Ma ha anche aperto indagini sulle iniziative Dei, i programmi di Diversity, equity and inclusion, pensati per garantire rappresentanza a minoranze, donne, persone con disabilità e comunità Lgbtq+. Sono stati sfasciati quasi ovunque, ritenuti discriminanti al contrario.
Le proteste non mancano, pur non essendo massicce. Per tutti, l’imperativo è respingere il nuovo contratto capestro che Trump chiede di sottoscrivere, la frusta con cui vuole addomesticare l’accademia. È il Compact for academic excellence in higher education messo sul tavolo recentemente. In cambio di corsie preferenziali nei finanziamenti federali, impone un allineamento con la Casa Bianca. Nello specifico un tetto alla quota di studenti internazionali, tasse congelate per cinque anni, test standardizzati e una definizione dei generi ridotta alla biologia. E poi «neutralità istituzionale», in pratica bocca cucita su politica e questioni sociali. Al momento il “patto” non ha avuto grande successo: gli atenei stanno rifiutando di siglarlo. «Li obbliga a mettere al primo posto le priorità del governo e non la missione della loro istituzione». Quanto alle idee del Compact, Young in realtà ammette che alcune meritano attenzione. Per esempio, le questioni legate ai costi esorbitanti della formazione, ma altresì alla libertà di espressione da garantire a tutti.
Tra le numerose recriminazioni, i repubblicani infatti rimproverano al settore dell’istruzione superiore di essere ostile alle idee conservatrici, di emarginare gli studenti con un pensiero di destra. Per il popolo Maga, riprendendo le parole del vicepresidente J.D. Vance, le università sono «il nemico»: nelle aule delle Ivy League, accusano, non si fa più lezione ma si pratica un sistematico lavaggio progressista del cervello. Inoltre – elemento chiave della linea repubblicana – l’amministrazione incrimina i campus per aver permesso episodi di antisemitismo, riferendosi in particolare alle proteste pro-Palestina durante il conflitto Israele-Gaza.
Se il Compact è stato ritenuto estremo, troppo invasivo, addirittura “orwelliano” secondo alcuni, è anche vero che molti rettori avevano già avviato trattative individuali con la Casa Bianca. L’alternativa sarebbe stata catastrofica: laboratori decurtati, ricercatori in fuga verso altre realtà, magari all’estero e interi programmi paralizzati. Lo hanno fatto Brown, Columbia, Cornell, University of Pennsylvania e University of Virginia. Harvard, bersaglio prediletto, ha scelto una linea più combattiva, andando in tribunale ma continuando a negoziare.
Tra gli strateghi della crociata, c’è stata May Mailman formata ad Harvard e specializzata in politiche di genere e diritto costituzionale, nota per le sue battaglie contro l’inclusività transgender nello sport. Per l’avvocata, molte istituzioni d’élite sono troppo ricche per continuare a ricevere un massiccio sostegno pubblico e stanno fallendo nella missione di formare cittadini pronti a guidare il Paese.
«Alcuni think tank, e ora l’amministrazione, hanno costruito una campagna che brandisce singoli episodi di prese di posizione liberal e li ingigantisce, creando l’idea che tutti gli atenei si comportino allo stesso modo», riflette Young. Tuttavia, l’esperto accetta che ci siano nervi scoperti. «I sondaggi indicano che gli studenti repubblicani si sentono molto a disagio, hanno paura che i colleghi di sinistra li facciano vergognare o li attacchino per le loro idee». Per lui, la cura è antica, bisogna tornare a dialogare. «Incoraggiare più voci conservatrici come quella di Charlie Kirk, creare spazi più sicuri perché possano parlare, magari contestati ma mai umiliati. Nella misura in cui affronta questo problema, il Compact ha ragione. Semplicemente credo che ci siano modi migliori per perseguire questi obiettivi». Insomma, non il ricatto.
La questione nodale della libertà di espressione è un tema a cui Jonathan Zimmerman ha dedicato tutta la sua carriera. Il professore insegna Storia dell’educazione all’Università della Pennsylvania. «Gli assalti dell’amministrazione sono incostituzionali, ma noi non abbiamo difeso bene i valori sotto attacco. Questo deve essere un momento di autocritica», ammette, consapevole che la fiducia nelle istituzioni universitarie non sia calata solo a destra, ma altresì a sinistra. «Alcuni problemi indicati da Trump sono reali, anche se le soluzioni proposte sono sbagliate. Ma non può essere la Casa Bianca a decidere quale sia il pensiero conservatore o chi lo stia svilendo, questo compito spetta solo a noi». Per il professore è quindi necessario «riconoscere la validità della critica e agire senza cedere al patto di Trump. Ai repubblicani che lo supportano, chiedo: sareste pronti ad accettare un futuro presidente democratico che vi imponga un ufficio Dei obbligatorio? Ovviamente no. Ed è la prova che le università non possono e non devono essere governate dai politici».
Ma a preoccupare docenti e scienziati, oggi è anche l’incubo che le politiche trumpiane possano determinare una recessione americana nel campionato mondiale della ricerca. Gli Usa rischiano di non essere più attrattivi per le menti migliori del Pianeta. «In che modo tenere fuori persone di talento servirebbe agli interessi dell’America? – denuncia Zimmerman – Gran parte del genio americano viene da rifugiati o immigrati arrivati da altri Paesi». A partire da Albert Einstein. «Non capisco come si possa proclamare il principio “America First” e cercare di tenere fuori proprio le persone che hanno contribuito a costruire la nostra potenza e reputazione internazionale».
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