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28 novembre, 2025La partita per la presidenza è tra la comunista Jeannette Jara e l’ultraconservatore Jak Kasta, figlio di un ex ufficiale nazista e fratello di un ministro di Pinochet
Comunque andrà a finire, rappresenta uno spartiacque: un bivio che segnerà il futuro politico del Cile. Dopo 50 anni, il Paese di Salvador Allende torna ad affrontare il suo passato. Il miraggio dell’Unidad Popular, le note ritmate degli Inti Illimani, le trame degli Usa e della Cia, le speranze di una fragile democrazia sepolte dal golpe di Augusto Pinochet; il terrore, la durissima repressione, gli arresti di massa, le bombe sganciate sul Palacio de La Moneda, gli omicidi truci e le torture.
Il 14 dicembre si torna alle urne per eleggere il nuovo presidente del Paese andino. Due gli sfidanti al ballottaggio. Due opposti, in tutti i sensi. Una donna e un uomo. Una comunista e un estremista di destra. Una figlia di operai con un passato da venditrice ambulante e il rampollo di un ufficiale nazista fuggito in Sudamerica dopo la caduta del Terzo Reich. Li divide un pugno di voti. Meno del 5 per cento. Al primo turno ha vinto lei, Jeannette Alejandra Jara Román, classe 1974, avvocata e amministratrice. Da sempre militante comunista, giovane leader dei movimenti studenteschi, cresciuta in una mediagua, una cosiddetta casa di fortuna, senza luce né acqua, immersa nel quartiere di El Cortijo, periferia di Santiago. Il 16 novembre scorso ha raccolto il 27 per cento dei voti. Non è stata la valanga che si aspettava ma ha retto all’assalto dei suoi avversari. Sette in tutto.
La tallona José Antonio Kast Rist, da tutti chiamato Jak, 60 anni il prossimo 18 gennaio. Si è affermato con il 23,9 dei consensi. Fa parte di una nota famiglia di industriali delle salsicce. Il padre, Michael Kast, è stato membro del Partito Nazista e ufficiale della Wehrmacht durante la Seconda guerra mondiale. È arrivato qui dove l’ha raggiunto il resto della famiglia. Hanno fatto fortuna. Soldi e potere. Suo fratello Miguel, economista della scuola dei Chicago Boys, iperliberisti, è stato ministro del Lavoro e direttore della Banca Centrale del Cile durante la dittatura di Pinochet. Anche Jak si è buttato in politica. È stato consigliere comunale e poi deputato. Ha militato nei partiti di centro destra, ha vinto le battaglie interne.
Si è candidato alla presidenza nel 2016. Lo appoggiava la Chiesa per le sue campagne contro l’aborto, la pillola del giorno dopo, ogni tipo di contraccettivo, l’unione tra persone dello stesso sesso. Fervente cattolico ha nove figli, uno in meno dei suoi genitori. I conservatori lo guardavano con diffidenza. Ma presto si sono fatti catturare dalla sua oratoria e dai valori che esprimeva senza remore. Gli hanno fatto spiccare il volo. Nel 2019 il grande balzo: Kast fonda un suo partito, il Partito Repubblicano, anima il think tank “Repubblican ideas” con cui diffonde il suo credo, e si prepara alla corsa in solitario verso la Moneda. Due anni dopo vince al primo turno, raccoglie il 27,91 per cento dei voti.
È un successo inaspettato. La gente gli crede, la destra lo vede come il nuovo leader. Il mondo che presto sarà rimodellato da Donald Trump fa presa anche in Cile, come nel resto dell’America Latina. Kast modera l’enfasi radicale dei suoi discorsi, non si dichiara più nostalgico di Pinochet. Cattura il consenso di quella vasta fetta di conservatori spaventati ancora dal comunismo, disillusa dall’esperimento della sinistra di governo. Ma non basta. Il Cile resta una democrazia consolidata, non dimentica il suo passato. La maggioranza, una sinistra forgiata dai governi di Michelle Bachelet e un centro disorientato dagli scossoni di un populismo che avanza, gli preferiscono Gabriel Boric, un giovane ex leader studentesco, con le idee audaci ma pragmatiche. Segna un passaggio di generazione ormai maturo, l’esecutivo che annuncia è a prevalenza femminile. Lo circondano le stesse donne con cui divideva l’impegno politico all’università. Una presenza importante, segnata da tante battaglie femministe. Con il loro inno Un violador en tu camino, scritto da Las Tesis, un collettivo formato da quattro militanti di Valparaiso che contagerà tutto il mondo.
Il Cile è appena uscito dall’estallido social, si lecca le ferite di una rivolta popolare, segnata da scontri, morti e feriti, molto sentita e partecipata, che per due anni ha messo in ginocchio il Paese provocando la caduta del governo di destra di Sebastian Piñera.
Il ballottaggio ribalta il risultato del primo turno. Vince la sinistra, Jak è sconfitto perché è visto come un pericolo, quasi un fastidio. È dirompente, ricorda il passato buio della dittatura. Un passato che adesso torna ad affacciarsi. José Antonio Kast parte dalla seconda posizione ma può contare sui voti del deputato della destra Johannes Kaiser (13,94 per cento) e della candidata dei conservatori Evelyn Matthei (12,46). Hanno già dichiarato entrambi che voteranno per il figlio dell'ufficiale nazista. La destra radicale raccoglie, in questo modo, oltre il 50 per cento dei suffragi. Può puntare sul Parlamento dove, domenica 16 novembre, ha già ottenuto la maggioranza dei 155 deputati e dei 23 senatori da rinnovare sui 55 seggi complessivi.
I sondaggi non sono affidabili in Cile. Hanno sempre sbagliato in passato. Due settimane fa davano per certa la vittoria della prima comunista. Quattro anni fa è successo anche con Boric. Era arrivato secondo, tutti pronosticavano la sua sconfitta. Ha ribaltato il risultato al ballottaggio. Ora è il leader del Partito Repubblicano a trovarsi in questa posizione.
Jeannette Jara, già sottosegretaria alla Sicurezza Sociale nel secondo governo di Michelle Bachelet e per tre anni ministra del Lavoro e del Benessere Sociale con Gabriel Boric, deve far dimenticare le sue posizioni a difesa di Castro e Chávez, deve distaccarsi dal Partito Comunista, come lei stessa ha annunciato, senza per questo rinnegare il suo passato. Deve soprattutto slegare la sua immagine da quella dell’inquilino de La Moneda.
Il governo del più giovane presidente nella storia del Cile non ha raggiunto i risultati per cui era stato eletto. Ha commesso molti errori. Spesso d’ingenuità e di scarsa esperienza. Ha varato una riforma costituzionale che avrebbe messo in cantina quella di Pinochet ma ha perso il referendum che doveva ratificarla. Non ha saputo cogliere gli umori della parte conservatrice del Paese che chiedeva certezze e cambiamenti senza scossoni. Ha dovuto fare i conti con l’impennata dei reati legati alla criminalità, all’arrivo caotico degli immigrati venezuelani in fuga da Maduro a cui si sono sommate le ondate di haitiani, salvadoregni, nicaraguensi, indiani, pakistani, afgani.
Usavano tutti il Cile come transito verso gli Usa. Molti sono rimasti, sono stati assoldati dalle gang, è arrivata la grande criminalità, i Cartelli messicani. Il traffico di droga, di esseri umani, le estorsioni si sono imposte su un Paese che viveva sospeso nella sua monotona tranquillità. In attesa di un progresso che è arrivato con slancio ma si è poi spento.
Il vento è cambiato, è tornata la paura. Le ultime rilevazioni attribuiscono la vittoria a Jak. Jeannette Jara può contare sui risultati ottenuti quando è stata ministra: la riforma sulle 40 ore di lavoro a settimana, la legge contro le molestie sui posti di lavoro, l’introduzione del salario minimo, il varo della pensione completa. Per lei parla la sua vita fatta di stenti, tra sacrifici e soprusi. È riuscita ad emergere da sola. Lo riconosce anche Franco Parisi leader di quel centro che, con il suo appoggio ufficiale di qualche giorno fa, ancora una volta potrebbe mantenere la sinistra al potere. Voterà per lei anche la Democrazia Cristiana. Ma temi come la sicurezza, il crimine e una crisi economica che continua a offuscare il futuro del Cile, tutti dominanti nella campagna dei mesi scorsi, fanno oscillare l’indice di consenso verso Kast. È lui il favorito. Con un’incognita che deciderà il risultato: non ci sarà astensionismo, per la prima volta il voto è obbligatorio. La gente si riverserà in massa alle urne. Sarà lei a scegliere il destino del Paese.
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