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11 dicembre, 2025Negli Stati Uniti i femminicidi sono un’emergenza. Ma l’Fbi, che raccoglie il dato, non usa neanche la parola. E con i tagli ai fondi federali il prezzo più caro lo pagano le minoranze
I femminicidi negli Stati Uniti sono un’epidemia devastante. Un cancro che continua a dare metastasi». Dawn Wilcox, quelle americane morte ammazzate, le conosce una per una. I loro nomi e i loro volti sono custoditi nei registri di Women Count USA, il database che ha creato e che da una decina di anni restituisce a ciascuna la dignità che le statistiche cancellano. Ex infermiera texana, con una storia di violenza domestica e aggressione sessuale alle spalle, si batte affinché il femminicidio venga finalmente riconosciuto per ciò che è, ovvero un’emergenza nazionale.
Per afferrare le proporzioni del fenomeno, basta scorrere i dati della Banca Mondiale; mentre in Italia si contano fino a 0,4 donne uccise ogni 100mila, in Usa il tasso schizza a 2,6. Il Paese è al 34esimo posto nel mondo, ma qui si concentra il 70 per cento dei femminicidi registrati tra le nazioni più ricche (Women’s Media Center). Nel 2023 sono morte oltre 2400 donne per mano di uomini. Nell’89,9 per cento dei casi l’assassino era qualcuno con cui la vittima aveva familiarità. E tra essi, più della metà, il 57,1 per cento, era un compagno o un marito.
Ma, a differenza dell’Italia, negli Stati Uniti i femminicidi vengono assorbiti nella cronaca nera e trattati come episodi isolati, offuscando la gravità reale del fenomeno. I numeri, avverte Wilcox, potrebbero essere molto più alti di quelli che conosciamo. «Non monitoriamo il femminicidio in modo adeguato, anche a causa della struttura federale. Le polizie statali, per esempio, non hanno alcun obbligo di riportare gli omicidi al livello federale», spiega. Secondo i dati del Violence Policy Center, nel 2020 Kentucky, South Dakota e Wisconsin avevano i tassi peggiori, ma queste classifiche vanno prese con le pinze. «I casi emergono in modo sparso, frammentato». È difficile avere un quadro reale quando il sistema non registra tutto ciò che accade localmente.
Tra l’altro l’Fbi, che raccoglie i dati nazionali, non usa neppure la parola. In generale qui il termine fatica ad affermarsi. «Credo che parte della resistenza sia dovuta al fatto che “femicide” suona troppo simile a femminismo. Per molti uomini genera un rifiuto immediato. Forse un giorno verrà riconosciuto sul piano legale, come accade in Italia (dove è stata appena approvata la legge che introduce il reato autonomo di femminicidio) e in altri Paesi, ma al momento siamo lontani», ammette.
Quel che accomuna i femminicidi, da una sponda all’altra dell’Atlantico, sono motivazioni e dinamiche. «È come se gli uomini seguissero lo stesso copione». Simile è pure il terreno culturale in cui incuba l’epidemia. «Atteggiamenti e comportamenti misogini profondamente radicati. Spesso senti la polizia stessa dire: “È stato un episodio isolato, una questione domestica, un marito che ha ucciso la moglie, il pubblico non è in pericolo”. Ma non sono d’accordo. In una società in cui un uomo si sente autorizzato a uccidere per una separazione, un divorzio o semplicemente per un “no”, nessuna donna può davvero dirsi al sicuro». Negli Stati Uniti i femminicidi colpiscono con durezza sproporzionata le minoranze indigene, latine e nere. Queste ultime rappresentano il 14 per cento della popolazione femminile, ma vengono uccise con una frequenza tre volte superiore rispetto alle bianche. Una disparità che racconta un’America dove razza e genere continuano a sovrapporsi in modo letale. Il quadro è ancora più inquietante per le donne trans nere.
Non si tratta solo di violenza fisica, ma di un ecosistema che la prepara e la giustifica. «Il razzismo è una sorta di sotto-struttura che si intreccia con l’ineguaglianza economica, con l’accesso alle cure e persino con il rapporto di fiducia tra le sopravvissute e le autorità», ci spiega Rochelle Davidson Mhonde della George Mason University. Un meccanismo che le lascia ai margini. «Le donne nere hanno meno probabilità di rivelare una relazione violenta a un agente di polizia, a un assistente sociale o persino al proprio medico», aggiunge la professoressa, che da anni lavora per tradurre la ricerca scientifica in strumenti concreti per contrastare la violenza di genere. La situazione delle donne native è ancora più drammatica: in generale subiscono un tasso di omicidi 10 volte superiore alla media nazionale. Nonostante ciò, metà degli omicidi non entra nemmeno nei registri dell’Fbi, scomparendo dalle statistiche ufficiali: la complessa giurisdizione tra tribunali tribali e federali rende indagini e interventi ancora più difficili.
La vulnerabilità delle donne è aggravata da un vuoto normativo. Come ricorda Mhonde, «al di là delle leggi generiche, il femminicidio può rientrare nei crimini d’odio, ma negli Stati Uniti non esiste una legge federale o statale che lo riconosca e lo criminalizzi esplicitamente». L’unico riferimento resta il Violence Against Women Act del ‘94 che “offre leadership e finanziamenti ai programmi contro la violenza, ma non definisce il reato”. È grazie a quella norma se esiste la hotline nazionale per le sopravvissute «ma oggi anche quel sistema di protezione è sotto minaccia», avverte Mhonde.
Difatti mentre i numeri crescono, nell’America di Donald Trump la politica stringe i rubinetti. Rochelle Davidson Mhonde non ci gira intorno: «Siamo tutti terrorizzati: con i tagli ai fondi federali è facile prevedere che verranno colpiti altresì quelli contro la violenza. E qui tornano le intersezioni: se le comunità etniche e i gruppi minoritari sono già i più esposti al femminicidio, cosa accadrà con restrizioni più dure sull’immigrazione e con Stati e contee che faticano a finanziare la sanità? Possiamo aspettarci più violenza e meno conseguenze».
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