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19 dicembre, 2025Nessuna strategia, solo vantaggi immediati e personali. Così l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale boccia il presidente Usa. In politica estera e interna
Caotico, incoerente, contraddittorio. John Bolton, falco repubblicano di razza, liquida così il dossier di trentatré pagine che condensa la National security strategy di Donald Trump. Il manifesto appena sfornato dalla Casa Bianca, sostiene l’ex consigliere per la Sicurezza nazionale, «ignora le grandi minacce agli Stati Uniti». La visione tracciata dall’amministrazione è quella di un Paese che mostra i muscoli nel proprio emisfero: più navi, più basi, più militari per frenare migrazioni, narcotraffico e avanzata delle potenze rivali nel “cortile di casa”. È il “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe, una rilettura del monito lanciato nel 1823 dal presidente James Monroe contro le ingerenze straniere nel continente americano. Un messaggio diretto anche a Pechino. Il documento fissa come priorità assoluta una rapida cessazione delle ostilità in Ucraina, per evitare una escalation e ricucire un equilibrio strategico con Mosca. Di critiche alla Russia, però, neanche l’ombra. I colpi più duri sono riservati ancora una volta all’Europa, descritta come una civiltà in declino, nel solco dell’ormai famigerato discorso di J.D. Vance a Monaco. «Credo che l’Nss sia stato scritto da persone vicine al vicepresidente», dice Bolton.
A 77 anni, dopo aver rappresentato gli Stati Uniti all’Onu ed essere stato alla Casa Bianca come consigliere per la Sicurezza nazionale tra il 2018 e il 2019, Bolton è finito nella lista nera dei “nemici”. Nel memoir “The Room Where It Happened” (2020), ha raccontato un governo guidato dal tycoon come feudo personale. Da lì la frattura e forse anche la resa dei conti. L’ex alleato è stato accusato di aver utilizzato informazioni riservate. Sulla carta potrebbe costargli fino a dieci anni di carcere.
Diventato una delle voci più feroci della destra anti-Trump, Bolton continua a non risparmiare colpi: «Il presidente affronta tutto in modo transazionale, ad hoc. Non persegue politiche coerenti. Nel caso dell’Ucraina, ad esempio, non ha idea di quali siano gli interessi americani, della Nato o degli ucraini. Si chiede solo: possiamo trovare un accordo? È così che affronta tutto. Non è strategico. Vive solo di ciò che ha davanti in quel momento».
È quanto sta accadendo anche sul fronte venezuelano?
«All’interno dell’amministrazione, il processo del Consiglio per la Sicurezza Nazionale si è sostanzialmente incrinato. La situazione in Venezuela ne è un buon esempio. Non è chiaro che Trump sappia cosa fare. Ma è un problema a tutti i livelli. Pensate alle politiche tariffarie, incoerenti e destinate a diventare ancora più confuse (sapremo forse tra un paio di settimane se la Corte Suprema annullerà i dazi). I suoi sostenitori dicono che gioca a scacchi tridimensionali, ma in realtà pensa solo alla prossima mossa. In America Latina la linea è condizionata da visioni opposte dentro la sua stessa base. In Florida, la comunità venezuelana-americana e quella cubana-americana sostengono con forza il rovesciamento di Maduro. E sono sicuro che sia ciò che il segretario di Stato Marco Rubio gli sta dicendo. Ma la base Maga gli ricorda che ha fatto campagna promettendo di porre fine alle “endless wars”: perché iniziarne una? È parte della ragione per cui la sua politica è così scombussolata: vuole mostrarsi duro, ma non vuole un conflitto prolungato».
Questo tentativo di riproporre un moderno corollario della Dottrina Monroe è davvero sostenibile?
«Anche nel primo mandato Trump si era concentrato sul Venezuela: abbiamo cercato di rovesciare Maduro con pressioni economiche e sostegno all’opposizione, ma non ha funzionato. Le preoccupazioni per l’influenza di Cina, Russia e altri attori in Venezuela e Cuba sono reali e legittime, ma non per questo si possono ignorare Medio Oriente ed Europa. Gli Stati Uniti hanno interessi globali e devono essere pronti a difenderli globalmente. È uno dei veri difetti di questa strategia limitata e incoerente. Da un lato dice di smettere di promuovere la democrazia nel mondo e di non interferire nei sistemi politici altrui; dall’altro accusa l’Europa di diventare meno democratica. Siamo riusciti a criticare l’Europa, ma non Russia e Cina».
La base Maga teme che l’attenzione alla politica estera distolga il focus dall’economia e dal carovita, centrali per le elezioni di metà mandato. Rischia di diventare un problema politico per il presidente?
«I suoi consiglieri gli ripetono che è l’economia ciò che pesa di più. Le elezioni del 2024 non si sono giocate sull’idea di dare all’emisfero occidentale una priorità più alta dell’Europa nella politica estera: nessuno ne ha parlato. Trump è chiaramente in crescente difficoltà sul fronte economico. Sta ripetendo l’errore di Biden, bolla tutto come “fake news”. Ma gli elettori sanno perfettamente come stanno le cose. E un presidente che dice loro che si sbagliano non convincerà nessuno».
Non sta convincendo neanche il piano per la guerra tra Ucraina e Russia. La Casa Bianca insiste per un accordo pur senza segnali di flessibilità da Mosca.
«Questa linea rischia di rafforzare la Russia perché Trump non vede veri interessi americani in gioco. Non gli importa se l’Ucraina debba cedere il resto del Donbass e non comprende l’impatto dell’aggressione russa sull’Europa, sulla Cina e sul resto del mondo. Non capisce che non reagire danneggerà la credibilità degli Stati Uniti e colpirà la Nato. È concentrato sull’idea di vincere un Nobel per la Pace e accetterebbe qualsiasi soluzione, anche imponendola a Kiev. Ed è questo il vero rischio».
Sta applicando anche in Medio Oriente questa logica?
«Se non riuscirà in Ucraina, vorrà potersi intestare la pace a Gaza. Ma ignora che l’Iran sta rifinanziando e riarmando Hamas e che, senza reale disarmo e smilitarizzazione, il piano di pace non potrà realizzarsi».
Molti imputano a Trump la morte dell’arte della diplomazia.
«Non ha scelto diplomatici o persone capaci. Ha messo a negoziare figure senza esperienza, come Steve Witkoff (inviato speciale per gli Stati Uniti in Medio Oriente e per le missioni di pace) o Pete Hegseth (ministro della Difesa). Non guarda alle conseguenze: pensa solo a ciò che ha davanti e a come trasformarlo in un accordo che lo avvantaggi. Witkoff non sa nulla di Medio Oriente o Ucraina. È molto vulnerabile alle tattiche di Putin ed è già stato ingannato da diversi attori nella regione. Il suo unico vero attributo è la lealtà, ed è ciò che il presidente valorizza».
Come si gestisce un alleato così imprevedibile senza compromettere la coesione dell’Alleanza?
«Penso che Mark Rutte abbia fatto un ottimo lavoro, ma bisogna stare attenti a non cadere nell’illusione che Trump ora sia d’accordo con la Nato. Oggi sì, domani chissà. Questa imprevedibilità crea un forte senso di incertezza ed è molto distruttiva. Però, per quanto frustrante sia in Europa, non bisogna concludere che l’Alleanza sia finita. L’Urss ha cercato per tutta la Guerra fredda di spaccare la Nato senza riuscirci. Bisogna cercare di limitare i danni e sperare di superare il momento, per poi poter riparare tutto quando Trump se ne sarà andato».
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