Quando in politica estera si recita a soggetto, il confine tra temerarietà e sconsideratezza non solo si affina, ma rischia di sfumare del tutto. È una rispolverata della nixoniana teoria del «madman» questo Trump bis: improvvisare, confondere, intimidire, destabilizzare. Dall’idea di incorporare il Canada come cinquantunesimo Stato all’ipotesi imperialista di acquisire Groenlandia e Canale di Panama, alla toponomastica del Golfo d’America, fino alla visione di una riviera mediterranea a Gaza. Arrivando alla svolta di una nuova partnership con la Russia che si spinge a incolpare l’Ucraina per la guerra scatenata da Vladimir Putin. «Non stiamo assistendo a una strategia politica, ma a reazioni dettate dall’impulso», spiega a L’Espresso Charles Kupchan, docente di Relazioni internazionali alla Georgetown University di Washington e membro del prestigioso Council on Foreign Relations. «Donald Trump oscilla tra estremi. Un giorno è il miglior amico di Kim Jong-un, l’indomani promette fuoco e fiamme; prima è arrabbiato con Benjamin Netanyahu per avere riconosciuto la vittoria di Joe Biden, poi lo vuole come primo invitato a Washington. E così oggi Volodymyr Zelensky è il bersaglio della sua rabbia (lo ha definito dittatore e comico di modesto successo, ndr), ma vediamo cosa succederà domani. Hanno bisogno l’uno dell’altro per arrivare a un accordo che sancisca la fine della guerra». Secondo il professore, che è stato consigliere nelle amministrazioni Clinton e Obama, è solo in questo secondo mandato che stiamo vedendo «il vero Trump».
Kupchan, come valuta la gestione dell’affare Ucraina?
«In linea di principio, il presidente sta facendo la cosa giusta. La guerra deve finire e un dialogo diretto Usa-Russia è necessario. L’apertura a Putin sarebbe dovuta avvenire già sotto l’amministrazione Biden. L’Ucraina, infatti, non è pronta a vincere, bisogna concentrarsi su ciò che è realizzabile, non su cosa è desiderabile. Detto questo, sono sconcertato da come abbia affrontato questa apertura. Non c’è una strategia coerente, ma solo caos. Il governo americano sta concedendo troppo prima ancora che i negoziati inizino: esclusa un’adesione alla Nato per l’Ucraina, no a una presenza dei militari americani, Kiev che dovrebbe rinunciare ai confini del 2014. E poi gli insulti di Trump a Zelensky. Non sono azioni deliberate. Sono principianti, non sanno cosa stanno facendo».
E riguardo alla Nato?
«Penso che Trump abbia ragione nel dire agli europei che devono spendere di più e che hanno un interesse più urgente rispetto agli Usa di portare pace in Ucraina. La preoccupazione è che invece di riorganizzare l’alleanza, finisca col distruggerla. Non sappiamo se abbia intenzione di ritirare le truppe americane dall’Europa. Credo di no, ma essendo estremamente impulsivo, tutto è possibile. Altro punto importante è che l’amministrazione rischia di alienarsi irreparabilmente gli alleati. Il discorso che il vicepresidente J.D. Vance ha tenuto a Monaco è stato offensivo e sconcertante. Se trattano male gli alleati e sostengono partiti che hanno legami con i neonazisti, come è successo in Germania, allora molti europei si chiederanno come sia possibile contare su un Paese che ha perso la testa, che non sa cosa sta facendo».
Senza una strategia a lungo termine, quali saranno le conseguenze per la stabilità internazionale?
«Instabilità e disordine. I partner europei e asiatici inizieranno a elaborare piani alternativi. Un Paese come il Giappone potrebbe considerare la necessità di dotarsi di armi nucleari. Se in Europa si iniziasse a dubitare dell’affidabilità americana, vedremmo emergere una Ue diversa, più indipendente e unita. Ma non credo possa accadere immediatamente, perché è troppo divisa e internamente debole, non c’è consenso su come affrontare Trump. È stato inquietante partecipare alla Conferenza sulla Sicurezza di Monaco. È stato quasi come assistere a un funerale, piuttosto che a un incontro di alto livello. Un altro aspetto preoccupante dell’attuale politica estera è l’unilateralismo. Gli Usa hanno perso l’entusiasmo di giocare in squadra: si sono ritirati dall’accordo di Parigi sul clima, dall’Organizzazione mondiale della Sanità, hanno scavalcato Europa e Ucraina per parlare direttamente con la Russia. Occorre che siano un catalizzatore di azione, non un attore isolato».
A leggere tutte insieme le dichiarazioni su Canada, Panama e Groenlandia, sembra quasi che Trump stia accarezzando ambizioni imperialiste da XIX secolo.
«Gli Stati Uniti invaderanno il Canada? Non credo. Ma il fatto che un presidente parli di trasformarlo nel cinquantunesimo Stato fa interrogare su quale realtà stia vivendo. Non credo sia serio, ma che piuttosto attui una strategia di destabilizzazione. Pensa al mondo in termini geografici. Osserva la mappa e dice: il Canada, un grande vicino, lo voglio; la Groenlandia è piena di minerali, mi piace; il Canale di Panama è molto redditizio, voglio anche quello. Poi guarda Gaza distrutta e immagina una Trump Tower su una nuova riviera mediterranea».
A proposito di Gaza…
«La proposta di trasferire i palestinesi di Gaza in Egitto, in Giordania o altrove è del tutto fantasiosa. Non credo che la proposta avrà seguito, però, appena si avvierà la fase di ricostruzione e governance, Trump spingerà su due fronti. Il primo è l’Iran, con cui cercherà di negoziare un accordo per evitare una guerra; il secondo è la normalizzazione dei rapporti tra Israele e i vicini. Ancora una volta, leggo queste dichiarazioni comeparte del suo tentativo di destabilizzare. Lo si vede persino dalla composizione del suo governo: sembra quasi che si sia impegnato a scegliere personaggi eccentrici, selezionati proprio perché non qualificati. È come se stesse dicendo all’establishment politico: non ho bisogno di voi».
Il taglio a Usaid, l’agenzia che si occupa della distribuzione degli aiuti umanitari internazionali, potrebbe indebolire l’influenza Usa?
«Una mossa miope, perché molte persone che ne dipendono ora vengono abbandonate al loro destino. Si tratta di un enorme vantaggio propagandistico per Cina, Russia e altri attori nel mondo in via di sviluppo. Se gli Stati Uniti vengono percepiti come un Paese che volta le spalle a chi è in difficoltà, la credibilità internazionale ne risente. Putin e Xi Jinping stanno brindando con fiumi di champagne perché vedono il patto transatlantico sgretolarsi, assistono allo smantellamento del governo americano e a una politica estera caotica».
Se è tutto così ovvio, perché Trump non se ne rende conto?
«Vive in una bolla, circondato da persone che fanno esattamente quello che dice, perché se lo contraddicessero verrebbero licenziate. Gli “adulti nella stanza” che c’erano nel primo mandato, John Bolton, James Mattis, John Kelly, Rex Tillerson, sono spariti».
Oggi a dettare la linea pare esserci solo Elon Musk. Che peso specifico ha in politica estera?
«Non capisco bene quale sia il suo ruolo. È una sorta di imprenditore esterno, ma allo stesso tempo una figura chiave e potente all’interno del governo. Sta interferendo sulla politica tedesca e su quella britannica. Ha conflitti di interesse. Biden aveva ragione: gli Usa devono stare attenti a non trasformarsi in un’oligarchia. In tutta schiettezza, oggi la politica e il governo sono irriconoscibili. Spero che gli Stati Uniti riescano a superare questa fase e rimangano una democrazia liberale stabile. Ma questi sono tempi pericolosi».