C'è una guerra che ha già causato la morte di 150mila persone e 12 milioni di sfollati che si combatte lontano dai riflettori. Iniziato il 15 aprile del 2023, scatenato dai due “uomini forti” del Sudan - il comandante in capo dell’esercito regolare, Abdel Fattah al Burhan e il leader delle Forze di supporto rapido, Mohamed Hamdan Dagalo - il conflitto in corso nello Stato africano è il più grave degli ultimi 20 anni. Il presidente ed ex vicepresidente del Consiglio Sovrano, organo che governa il Paese dal golpe che ha detronizzato nell’ottobre 2021 il primo ministro riconosciuto dalla comunica internazionale, Abdalla Hamdok, non hanno nessuna intenzione di fermare le ostilità. Diciotto mesi di scontri, raid aerei e violenze di stampo etnico, tra cui uccisioni di massa e stupri utilizzati come arma di guerra, hanno generato una crisi umanitaria senza precedenti.
«I donatori internazionali, le Nazioni Unite, le parti in guerra e i loro alleati devono agire ora per il “cessate il fuoco” e scongiurare morti evitabili per malnutrizione: la situazione già catastrofica non può che peggiorare» sostiene Christos Christou, presidente di Medici Senza Frontiere, appena rientrato dal Paese. Metà della popolazione del Sudan sta affrontando alti livelli di insicurezza alimentare acuta (24,6 milioni di persone), e 8 milioni e mezzo sono in piena emergenza acuta. «È una delle peggiori crisi che il mondo abbia visto negli ultimi decenni. Ci sono livelli estremi di sofferenza in tutto il Paese, i bisogni crescono di giorno in giorno, ma la risposta umanitaria è profondamente inadeguata. In molte delle aree in cui sorgono i campi per gli sfollati siamo l’unica organizzazione umanitaria presente. Prima dell’inizio della guerra c’erano dozzine di organizzazioni internazionali che garantivano assistenza in tutto il Sudan. Ora, non ce ne sono quasi più. In una crisi di questa portata è inaccettabile. Come il blocco sistematico della fornitura di aiuti che è stato imposto dalle forze armate sudanesi negli ultimi sei mesi: non possiamo inviare forniture mediche o personale nelle aree controllate dalle Forze di supporto rapido» denuncia Christou.
La guerra uccide non solo con le armi, ma anche con le conseguenze degli scontri che hanno costretto alla fuga milioni di persone e favorito una carestia devastante e un numero impressionante di morti. E, secondo l’inviato speciale degli Stati Uniti, Tom Perriello, «le vittime sono destinate ad aumentare rapidamente». Gli ultimi eventi, drammatici e crudi, evidenziano l’emergere di un conflitto che sembra non avere né fine né compassione. Solo negli ultimi giorni, più di duecento civili sono stati uccisi negli attacchi delle Forze di supporto rapido nello Stato del Nilo Bianco, nel sud del Sudan.
Gli sfollati continuano a crescere, sono ormai più di 12 milioni, una cifra che riflette la gravità della situazione. La portata della devastazione che colpisce le comunità locali e la vita quotidiana dei cittadini sudanesi è oscurata agli occhi di chi osserva da lontano. Questa guerra non è mai diventata “mediatica”, come nel caso del conflitto tra Russia e Ucraina o la distruzione di Gaza per mano israeliana dopo l’attacco di Hamas del 7 ottobre: le notizie diffuse dai mezzi di informazione mainstream su quanto avviene in Sudan sono pressoché nulle.
Lo scorso 21 febbraio in una conferenza ad Addis Abeba, co-organizzata da diverse istituzioni e nazioni tra cui gli Emirati Arabi Uniti e l’Unione Africana, il segretario generale dell’Onu, António Guterres, ha definito la situazione una «crisi di portata e brutalità sconcertanti». Ha avvertito che l’impatto delle tensioni in Sudan si estende ben oltre i suoi confini, minacciando la stabilità dell’intera regione.
Ma sono soprattutto le voci degli sfollati e dei testimoni delle atrocità perpetrate in tutto il Paese a testimoniare storie strazianti e sofferenze inimmaginabili. Le famiglie fuggono dalle loro case portando con sé solo il necessario, affrontando pericoli quotidiani in cerca di sicurezza. Donne e uomini costretti a lasciare tutto, dimenticando i loro legami, le loro terre e, nella maggior parte dei casi, anche i loro sogni. «Abbiamo perso tutto, anche la speranza» dice Amina, originaria del Darfur, che ha visto il suo villaggio dato alle fiamme e ha assistito all’uccisione di parenti, amici e vicini. Le milizie paramilitari, accusate di crimini contro l'umanità, continuano a operare senza alcuna apparente conseguenza, alimentando un clima di paura e instabilità, mentre i bombardamenti delle Forze armate sudanesi mietano soprattutto vite di civili.
Le immagini di villaggi distrutti e delle persone in fuga stanno diventando il triste simbolo di un Paese in preda al caos. Ogni giorno ci sono nuovi report di attacchi indiscriminati, di crimini efferati e di violenza sessuale usata come “tattica di guerra”. In questo scenario di devastazione, la comunità internazionale non riesce a rispondere in modo efficace. Sarebbe necessario un approccio coordinato per affrontare le cause profonde del conflitto e promuovere un dialogo “sostenibile” tra le fazioni in lotta. Solo con un impegno continuo e duraturo, sostenuto da azioni concrete, è possibile sperare in una risoluzione pacifica della crisi.
La guerra in Sudan è più di un semplice scontro armato tra due fronti: sono andate perse vite, mezzi di sussistenza, intere comunità, innovazioni uniche, il senso dell’identità, dell’appartenenza, il rifugio offerto a milioni di persone da una città sicura com’era Khartoum, la capitale, con un basso tasso di criminalità e un potenziale enorme di crescita. La speranza, il sogno, di ciò che avrebbe potuto essere, ridotti in cenere.