Il Paese vara un governo di alto profilo. Ma la guerra civile prosegue da oltre due anni, con il sospetto dell’uso di armi chimiche. E il rischio che il conflitto si estenda oltre i confini

Il Sudan ferito è sull’orlo del baratro

A oltre 25 mesi dallo scoppio della guerra in Sudan, con il sospetto che siano state utilizzate armi chimiche, il Paese prova a darsi un nuovo assetto politico. Il generale Abdel-Fattah Burhan, leader delle Forze Armate Sudanesi e del Consiglio sovrano transitorio, ha nominato primo ministro Kamil al-Taib Idris, ex diplomatico e funzionario delle Nazioni Unite, affidandogli l’incarico di formare un governo di transizione. La designazione di un civile di alto profilo alla guida di un nuovo esecutivo, dopo la parentesi del deposto Abdalla Hamdok, primo premier dopo la rivoluzione del 2019, non basta a nascondere l’instabilità e le ferite di un Paese ormai frammentato e sull’orlo di una catastrofe umanitaria di proporzioni mai viste che conta oltre 150mila morti e 13 milioni di sfollati.

 

Un contesto, dove il rischio di un disfacimento totale si fa sempre più concreto, gravato anche dai sospetti avanzati dagli Stati Uniti che accusano l’esercito sudanese di aver impiegato armi chimiche contro i paramilitari delle Forze di supporto rapido. Il dipartimento di Stato americano sostiene che le Forze armate del Sudan abbiano usato cloro gassoso che, se inalato, oltre a creare danni ai tessuti, può causare la morte. Gli States, che lo scorso gennaio avevano già sanzionato il leader delle Forze di supporto rapido, Mohamed Hamdan Dagalo, per i crimini perpetrati contro la popolazione, hanno annunciato restrizioni anche per i militari al comando di Burhan. Nonostante dal Sudan sia arrivata la ferma smentita delle autorità “ufficiali”, che parlano di «ricatto politico e di deliberata mistificazione dei fatti», le sanzioni saranno operative dal 6 giugno e comprendono la sospensione degli aiuti finanziari statunitensi.

 

Intanto sul terreno, mentre l’esercito ha ripreso il controllo della capitale, Khartoum, le ex milizie filogovernative continuano a compiere massacri nella regione del Darfur, dove mantengono la propria roccaforte e dilaniano comunità sulla base dell’appartenenza tribale. Le violenze perpetrate dalle Rsf stanno favorendo la nascita di nuovi gruppi armati, aprendo scenari di estensione del conflitto verso Ovest, dove le preesistenti tensioni tra etnie tramandate nel tempo alimentano rancori tra le diverse componenti del tessuto sociale.

 

Le Forze di supporto rapido (Rsf), le ex milizie “janjaweed” (letteralmente “diavoli a cavallo”) accusate con il presidente Bashir dalla Corte penale internazionale di genocidio nel Darfur, sono nate come strumenti di guerra e di guerriglia nel 2013. Sostenute dall’intelligence sudanese e controllate da ufficiali dell’esercito regolare, sono ben presto diventate una forza paramilitare e autonoma sotto il comando di Dagalo, meglio conosciuto come “Hemedti”. Questa forza è composta in maggioranza da esponenti delle tribù Rizeigat, Misseriya e Hawazma, “unite” dall’identità etnica “Atawa”, che hanno trasformato le dinamiche di potere nel Paese, legittimate da legami tribali e interessi economici.

 

La loro storia affonda le radici in decenni di conflitto nella regione occidentale del Sudan, rafforzando poi la propria influenza con la partecipazione alla guerra in Yemen. Questa dimensione tribal-mercenaria ne rende estremamente fragile l’equilibrio interno. Lo scenario potrebbe degenerare in una spirale di faide senza fine, alimentate dalla percezione di ingiustizie storiche, che potrebbero determinare un caos permanente quasi impossibile da contenere.

 

Un altro elemento che preoccupa è il rischio che questa frammentazione possa estendersi oltre i confini sudanesi, minacciando la stabilità dell’intera regione, fino al Sahel e al Corno d’Africa. Il proliferare di gruppi armati alimenta inoltre il traffico di armi, utilizzate per mantenere il controllo dello sfruttamento delle risorse naturali. L’ascesa di nuovi signori della guerra aggrava le conseguenze per la sicurezza non solo regionale ma anche mondiale.

 

«Per evitare che questa spirale diventi irreversibile, è imprescindibile un impegno serio e coordinato di tutti gli attori coinvolti. La comunità internazionale deve rafforzare i colloqui di pace, promuovendo processi di riconciliazione tra le parti e sostenendo un piano di disarmo, smobilitazione e reintegrazione dei militari delle forze non statali» sostiene l’analista Abdal Monim Himmat.

 

Solo un’azione concreta può favorire un percorso di stabilizzazione duratura. Ma a più di due anni dall’inizio dei combattimenti, il silenzio assordante di molti ha spinto il Sudan verso il baratro. Non basta riconoscere la gravità di questa emergenza, bisogna intervenire con decisione prima che sia troppo tardi. La guerra in Sudan rappresenta uno dei drammi umanitari più trascurati dell’attuale contesto globale. Mentre i riflettori dei media e delle istituzioni internazionali puntano altrove, il conflitto sudanese continua a devastare una popolazione già esausta. Non sono state perse solo vite e distrutte intere città. La guerra ha anche acuito le disuguaglianze di genere e di vulnerabilità. Le donne e i bambini pagano il prezzo più alto: incertezza, violenza, perdita di protezione e di accesso a servizi essenziali sono diventate parte della loro quotidianità.

 

È emblematico come le crisi “invisibili” siano spesso quelle che pesano maggiormente sulle fasce più deboli, rendendo le loro sofferenze ancora più urgenti e impellenti. Mentre il mondo guarda altrove, nel cuore dell’Africa si consuma una delle peggiori tragedie umanitarie contemporanee. Il Paese vara un governo di alto profilo. Ma la guerra civile prosegue da oltre due anni, con il sospetto dell’uso di armi chimiche. E il rischio che il conflitto si estenda oltre i confini

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