Zaluzhny, un generale per l'Ucraina post Zelensky

Ex comandante delle forze armate di Kiev mandato a Londra dal presidente, accreditato dai sondaggi come futuro leader. Ma lui, per adesso, non si sbilancia

Sappiamo già come andrà: ci toccherà combattere finché qualcuno dall’alto non dirà che è finita». Tra i militari ucraini sul fronte Est ormai è chiaro che la guerra non dipende più dall’esito delle battaglie e nei momenti di pausa tra un turno e l’altro le unità si affrettano a controllare su Internet se ci sono novità. Il presidente Zelensky e la sua cerchia di fedelissimi ripetono che «nessuna decisione potrà essere presa senza l’Ucraina», ma ogni volta che Donald Trump annuncia un nuovo contatto con Vladimir Putin il Paese è in trepidazione. Ai più lucidi è evidente che la Casa Bianca concederà a Mosca molto di ciò che vuole – il riconoscimento della Crimea o la neutralità dell’Ucraina, ad esempio – in modo da chiudere in fretta la fase preliminare dei negoziati e passare all’apertura di un tavolo di trattative ufficiale con Kiev. La questione più spinosa, ovvero lo status delle quattro regioni ucraine parzialmente occupate, sarà rimandata per evitare che Zelensky sia costretto a opporre un rifiuto preventivo. Ma il presidente ucraino stesso è in una condizione precaria e quasi tutti nel Paese hanno capito che una delle condizioni imposte dalla Russia potrebbe essere la sua rimozione.

 

Al momento l’unico modo legale che gli Stati Uniti hanno per accontentare Vladimir Putin è obbligare il governo ucraino a indire elezioni parlamentari e presidenziali subito dopo la firma degli accordi che metteranno fine alla guerra. La campagna mediatica iniziata da Trump con dichiarazioni incendiare – «dittatore e comico mediocre» «nessuno lo vuole più, ha solo il 4 per cento di gradimento» – è stata portata avanti dal megafono mediatico del tycoon, Elon Musk, che si è spinto fino a paventare come sola via d’uscita per Zelensky «una sorta di amnistia in un Paese neutrale in cambio di una transizione pacifica per il ritorno della democrazia in Ucraina». Il meccanismo è noto: ripetere un concetto, per quanto assurdo, finché a qualcuno non inizi a sembrare vero o, almeno, finché non diventi una delle possibilità. Nel migliore dei casi si riesce anche a presentarlo come unica opzione, come ad esempio riguardo ai 350 miliardi spesi dagli Usa per armare l’Ucraina, una cifra completamente inventata da Trump. Dopo l’assalto però è il momento delle aperture: elogi e grandi sorrisi, carota e bastone. Da quando Kiev è riuscita a ricucire i rapporti con gli Usa in cambio dell’accettazione del cessate il fuoco totale di 30 giorni proposto dal Segretario di Stato Marco Rubio nei colloqui di Gedda, la campagna diffamatoria si è placata. L’ordine di Trump deve essere stato quello di tenere il più possibile calme le acque, con entrambe le parti. Così a Mosca non sono state fatte eccessive pressioni per i continui rimandi alla risposta sulla tregua, nonostante sia evidente che Putin sta prendendo tempo per permettere ai suoi militari di avanzare nel Kursk. La Cbs e altri media hanno diffuso la notizia che la Casa Bianca sta mettendo a punto un nuovo pacchetto di sanzioni «durissime» per l’eventualità in cui il presidente russo dovesse rifiutarsi, ma Trump ha dichiarato che al momento preferisce non parlarne, pur sottolineando di avere «degli strumenti per fare pressione». 

 

Nell’ultima telefonata tra i due presidenti non si è parlato di Zelensky, ma il suo futuro è legato a quello della guerra. La parola che Putin nel suo discorso storico del 24 febbraio 2022 ha reso celebre, «denazificazione», ora ha assunto una valenza del tutto pratica che coincide con l’allontanamento dell’attuale presidente ucraino. Per la destra russa che continua a esigere pubblicamente di essere più duri con l’Ucraina, Zelensky è un simbolo da abbattere. E in questo caso il Cremlino non censura: il simbolo della resistenza militare ucraina, il volto che l’Occidente ha scelto per contrastarlo nelle sue aspirazioni imperialistiche va eliminato. Il capovolgimento non è evidente e vale la pena sottolinearlo: Zelensky è passato dalle copertine della rivista Time, dagli elogi come “difensore dei valori occidentali dalla barbarie russa”, dalle standing ovation nei vari Parlamenti dei Paesi della Nato al ruolo di arrogante guastafeste. Insultato in mondovisione e messo alla porta alla Casa Bianca, deriso sui social network da Musk e dagli uomini di Trump, addirittura accusato di essere un ostacolo alla pace in Ucraina. Intanto Putin è blandito, i suoi emissari vengono trattati con sussiego durante gli incontri in Arabia Saudita e in Turchia e le sue parole negli Usa non sono più presentate come quelle di un autocrate assetato di sangue. Per Putin è già un successo. Ora però, per suggellare questa vittoria mediatica servono fatti e l’allontanamento di Zelensky è secondo solo al mantenimento delle regioni occupate che, per complicare ulteriormente il quadro, sono già state inserite dal Cremlino all’interno della Costituzione russa come territori inalienabili della Federazione. Ma d’altronde anche Zelensky nell’autunno del 2022 ha emesso un decreto che vieta al presidente ucraino di trattare con Vladimir Putin e invece ora si dice pronto a sedersi al tavolo delle trattative. La legge marziale, dal lato di Kiev, e lo strapotere dell’ex ufficiale del Kgb, da quello russo, rendono i codici un dettaglio aggirabile. Il Consigliere per la sicurezza di Trump, Mike Waltz, ha dichiarato chiara mente che dopo i colloqui «è necessario» che in Ucraina si tengano elezioni nel breve termine, «comunque non oltre la fine dell’anno». Da Kiev non si sono opposti. Al contrario, Zelensky ha approvato una serie di misure che colpiscono gli oligarchi ucraini, tra cui l’ex presidente Petro Poroshenko, presentato dall’attuale governo come un pericolo per il Paese e sanzionato in diversi modi (compreso il divieto di allontanamento dal territorio nazionale) ma ancora abbastanza popolare in diverse regioni. Tra i politici di carriera è lui l’avversario più probabile dell’attuale presidente. Si vocifera anche il nome dell’ex ministro degli Esteri, Dmytro Kuleba, reputato dai più una “persona seria”, ma nessuno ritiene che abbia numeri sufficienti. Il vero antagonista universalmente riconosciuto è Valerii Zaluzhny, ex comandante in capo delle forze armate “esiliato” per volontà di Zelensky all’ambasciata di Londra. Amato e rispettato dai soldati, che saranno determinanti per l’elezione del prossimo presidente ucraino, secondo un sondaggio del Centro ucraino per le ricerche sociali e di marketing (Socis), se si votasse ora Zaluzhny otterrebbe al primo turno il 41 per cento delle preferenze, di molto sopra Zelensky (23,7 per cento), Poroshenko (6,4 per cento) e l’ex presidente del parlamento Dmitry Razumkov (5,6 per cento). Al secondo turno lo scarto sarebbe incolmabile: l’ex generale batterebbe l’attuale presidente con il 67,5 per cento dei consensi contro il 32,5 per cento. Il diretto interessato ha però sempre smentito di volersi candidare e si è limitato nei mesi ad alcune valutazioni tattiche e strategiche che ogni volta hanno avuto una grande eco in Ucraina e all’estero. Oltre all’appoggio dei militari e dei partiti di destra, resta da capire se Zaluzhny sia ben visto dagli Stati Uniti che, questo è certo, d’ora in poi non si accontenteranno più di un ruolo di consulente privilegiato, ma vorranno essere sicuri che l’Ucraina non metta a rischio il cessate il fuoco e l’accordo sulle terre rare voluti da Trump.

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