Il blocco dell’elettricità nella Striscia imposto da Israele rende difficile estrarre il liquido dai pozzi. Mentre il prezzo del carburante vola e curare i feriti diventa impossibile

Al mercato di Khan Yunis, nel sud della Striscia di Gaza, un metro cubo di acqua pulita costa 160 shekel, 40 euro. «Prima della guerra lo si comprava a 3 o 4 shekel, 75 centesimi». Sami Abu Omar, coordinatore locale per l’ong italiana Acs, racconta gli effetti dell’ultimo blocco dell’elettricità. «Useremo tutti i mezzi a nostra disposizione», con queste parole il Ministro dell’Energia di Israele, Eli Cohen, ha annunciato il 9 marzo la firma sull’interruzione totale dell’elettricità a Gaza per costringere Hamas al rilascio di altri ostaggi, alla vigilia di un nuovo ciclo di negoziati che avrebbe dovuto condurre alla seconda fase del cessate il fuoco. Nella notte di lunedì 17, però, Israele ha rotto il cessate il fuoco bombardando la Striscia e provocando solo nelle prime sei ore quasi 300 morti e migliaia di feriti. «È stata una notte molto difficile», racconta Abu Omar. «Alle 2 e 10 hanno cominciato a bombardare lungo tutta la Striscia di Gaza. Case e tende sono state colpite: l’ospedale non riesce più a dare assistenza». Un’azione per spingere al rilascio di altri ostaggi detenuti a Gaza e che Hamas ha definito «un inaccettabile ricatto». Questo dopo che dal 2 marzo – il giorno successivo alla fine della prima fase della tregua – Israele aveva già interrotto l’entrata di ogni aiuto umanitario nel territorio, compresi acqua, cibo, medicine e carburante. «Forse il mondo non sa queste cose, ma a Gaza non c’è elettricità dal 7 ottobre 2023. Quest’ultimo taglio, però, ha provocato ulteriori danni per l’accesso all’acqua potabile». Senza elettricità, infatti, non funzionano i dissalatori e i depuratori dell’acqua: già prima dell’“assedio totale” da parte di Israele, infatti, circa il 90 per cento delle acque di Gaza non era potabile.

 

Con una concessione del novembre 2024, il principale dissalatore della Striscia, quello di Deir el-Balah, aveva ripreso a funzionare. Oggi, 600mila persone si ritrovano di nuovo senza nulla da bere e le Nazioni Unite hanno stimato che ad avere urgente bisogno di acqua e assistenza sanitaria siano 1,8 milioni di persone, su poco più di 2 milioni di abitanti totali della Striscia. «Anche l’impianto di Khan Yunis oggi deve funzionare con il carburante, che però è limitato e non entra più», spiega la coordinatrice di Medici Senza Frontiere, Myriam Laaroussi, «Con questo sistema, a Khan Yunis si è passati da una disponibilità di 17 milioni di litri di acqua al giorno a soli 2,5 milioni». È un impatto che pesa anche sui generatori che fanno funzionare i macchinari dei pochi ospedali ancora in funzione. «Abbiamo abbastanza riserve di carburante per un mese ancora». Dopodiché lo staff di Msf non sarà più in grado di curare i pazienti in modo adeguato. «Questo blocco è illegale», aggiunge: «È vietato dalle leggi sui diritti umani. Israele non può provocare una punizione collettiva per la popolazione di Gaza. Non è giusto».

 

Quando il ministro Cohen ha annunciato il blocco, Laaroussi era nella sede di Msf: «Ho visto la paura comparire sui volti dei miei colleghi». Un timore nato dalla consapevolezza di aver già assistito ai mercati vuoti e ai prezzi che salivano. Una collega le ha raccontato del periodo in cui era senza lavoro, di quanto peso aveva perso e di quanto ne avevano perso anche i suoi figli: «Era spaventata». Con il poco carburante si cercano di limitare gli spostamenti anche durante il giorno e di caricare i telefoni prima della sera, in modo che poi i generatori possano funzionare a pieno regime per le cliniche e per l’ospedale. «Il prezzo dei rifornimenti continua ad aumentare, ci si sposta sempre meno» conferma Abu Omar. E quindi il Nord della Striscia, rimasto isolato e sotto assedio completo dell’esercito israeliano per mesi e dove l’unico dissalatore che forniva acqua pulita è stato distrutto insieme alle abitazioni, è in una crisi umanitaria ancora peggiore.

 

Si cerca di rimediare costruendo pozzi. Ma il problema è lo stesso: i generatori funzionano con il carburante che costa dieci volte di più rispetto al 2023 e i pannelli solari sono un lusso. In più, c’è il problema del dual use system per cui il governo di Benjamin Netanyahu non consente l’accesso a questo genere di forniture, sostenendo che le forze di Hamas si approprino dei prodotti destinati ai civili e li usino per gli attacchi contro Israele. «Questo sistema di controllo impatta sulle cure che possiamo dare ai malati e ai feriti. Un camion di aiuti è stato fermato perché dentro c’era dello shampoo», racconta Laaroussi. Secondo l’ultimo rapporto delle Nazioni Unite la mancanza dell’acqua è una delle condizioni di vita conseguenti a scelte deliberate delle forze israeliane che rientrano negli atti di genocidio. Di «crimine di sterminio» aveva parlato anche l’organizzazione internazionale Human Rights Watch. Mentre, a inizio marzo, Francia, Germania e Regno Unito hanno espresso in un comunicato congiunto che «gli aiuti non dovrebbero mai essere subordinati a un cessate il fuoco o utilizzati come strumento politico». Nel mese sacro di Ramadan, nonostante tutto, dopo il tramonto moltissime famiglie gazawi si riuniscono nelle tende, o nei ritagli delle case non crollati, per l’iftar, il pasto che interrompe il digiuno. «Mangiamo fagioli, ceci, biscotti. Non c’è nulla di fresco. Non c’è carne», commenta Sami Abu Omar. E racconta dei riquadri sparsi di lampadine a Led che, grazie al sostegno di piccole batterie, durante la notte si vedono comparire nei quartieri.

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