In Italia diremmo che è bravo a rigirare la frittata. E in effetti George Simion, il politico dell’ultradestra populista rumena che domenica 18 maggio potrebbe essere eletto presidente, è un campione del prendere le accuse rivolte dai democratici dell’Unione europea ai novelli partiti populisti di estrema destra e a rilanciarle contro di loro. In modo tanto opportunistico quanto scorretto. «Combattiamo per l’ordine costituzionale, per lo Stato di diritto e per il potere di voto delle persone», tuona il trentottenne sui social media, con quel volto da bravo ragazzo con cui non si può non essere d’accordo, nonostante il passato da violento hooligan da stadio. E infatti milioni di rumeni concordano.
Aizzatore di folle
Ma lo Stato di diritto per cui dice di battersi questo 38enne che non ha mai detenuto una posizione di governo nella sua breve carriera di agitatore di folle, è solo la decisione con cui lo scorso dicembre la Corte suprema rumena ha impedito allo sconosciuto ultra nazionalista Calin Georgescu (suo rivale) di partecipare alle elezioni presidenziali, non perché fosse un concorrente scomodo, ma perché la sua corsa era direttamente sponsorizzata da Mosca che lo promuoveva su TikTok: flagranza di indebita ingerenza estera. E invece: «La giustizia deve rimanere indipendente da ogni interferenza o influenza politica», ha tuonato qualche giorno fa su X, con grande ipocrisia, Simion, come se non gioisse, lui sì, dell’eliminazione di un rivale scomodo, e non sapesse che il ruolo della magistratura è esattamente quello di applicare la legge ed escludere dalla campagna chi non ha i requisiti per essere legalmente eletto.
Non contento, con abile gioco di polso, Simion, lisciando le folle aizzate dai social media, è andato oltre: «Coloro, come i miei oppositori, che si rifiutano di capire questo principio base sono nemici della democrazia». Loro. Poi, senza battere ciglio, ha ringraziato niente meno che l’autocrate ungherese Viktor Orbán che aveva appena twittato: «Siamo con te contro i tentativi dell’Unione europea di indebolire o attaccare la Romania nel caso in cui venissi eletto». Bruxelles che indebolisce Bucarest, non la Bucarest di Georgescu e Simion che tenta di disfare l’Unione, con il sostegno di Mosca e Budapest. Un vero capolavoro di “girafrittatismo” a cui infatti Simion si è inchinato. Del resto il pulpito di Orbán è quello di un capo di Stato che negli ultimi dieci anni di governo ha piegato magistratura, accademia, società civile e media alla sua volontà, tanto da vedersi parzialmente privato dei fondi europei, come da regole di un’Unione che timidamente difende i suoi principi fondanti e contro cui Orbán&friends non fanno che scagliarsi con veemenza, indossando i panni ipocriti delle vittime.
Un'economia in crescita ma non per tutti
Il vittimismo del padre fondatore del populismo sovranista europeo è oggi anche il marchio di fabbrica di Simion, l’arringatore di folle divenuto politico grazie alla linea del “bastion contrario” a ogni costo: si era schierato contro i vaccini anti Covid e ora sostiene, a dispetto del dato di realtà, che gli stranieri sfruttino le ricchezze della Romania. Eppure è proprio grazie ai fondi europei che l’economia rumena è cresciuta negli ultimi dieci anni a una media del 3,5 per cento, superiore a quella del 2,5 per cento dei Paesi dell’Europa orientale. Nel 2020, il suo Pil pro capite ha raggiunto il 72 per cento della media Ue, rispetto al 44 del 2007, l’anno successivo alla sua entrata nell’Unione. Perfino le disuguaglianze reddituali non rispecchiano la retorica sovranista: l’indice di Gini (che misura le disuguaglianze nella distribuzione della ricchezza su una scala da 1 a 100) in Romania arriva a 31 contro i 34 punti dell’Italia.

Ma se la rabbia e la frustrazione popolare che questo giovane tribuno incarna risuonano con addirittura il 41 per cento della popolazione – tanto consenso ha avuto nel primo turno delle presidenziali due settimane fa, doppiando l’europeista sindaco di Bucarest Nicușor Dan arrivato secondo – una ragione c’è. E non è da sottovalutare. Prima dell’esplosione del Covid, per due anni tra il 2017 e il 2019, la piazza rumena era esplosa, scagliandosi contro i socialisti al governo che non solo non avevano abbassato un tasso di corruzione dilagante in ogni sfera della vita quotidiana (celebri sono le richieste sotto banco dei medici della sanità pubblica), ma addirittura avrebbero voluto approvare leggi che depenalizzavano mazzette e conflitti di interesse fino a un valore di poco inferiore ai 50mila euro. Da allora socialisti e liberali si sono succeduti senza dare delle risposte significative a una popolazione che ha continuato ad assottigliarsi. E che non li vuole più.
I più critici con le vecchie élite politiche sono i rumeni residenti all'estero
Oggi la diaspora rumena in Europa conta quattro milioni di persone su 19 totali. Quattro milioni di cittadini delusi e arrabbiati contro i partiti tradizionali post 1989, che lavorano in altri Stati europei, con occupazioni spesso umili. Ma che votano. Sono loro che in massa si sono schierati con il primo venuto, chiunque fosse, pur di scardinare un sistema che, nato sulle rovine del passato sovietico e nonostante la crescita economica, non ha saputo negli ultimi vent’anni infondere dignità, etica e speranza alla maggioranza della popolazione. Simion «non sa quello che vuole, ma sa che presentandosi contro i partiti tradizionali acquista voti», chiosa l'economista Daniel Gros, direttore dell’Istituto per le politiche europee all’università Bocconi.
Salito all’onore delle cronache nel 2012 per essersi messo alla testa di un movimento che chiedeva la riunificazione della Moldova (da cui è bandito) con la Romania, ha fondato nel 2020 Aur, Alleanza per l’unione dei rumeni con cui ha sostenuto la campagna contro i vaccini, raccogliendo gli umori dei contrari, e si è poi schierato nel 2022 contro gli aiuti a Kiev (altro Paese in cui non può mettere piede).
Dopo avere tentato invano di essere eletto al Parlamento europeo l’anno scorso, con Aur è entrato nel partito (non nel gruppo parlamentare) dei Conservatori europei di Giorgia Meloni, diventandone uno dei tre vice-presidenti e creandosi una tribuna rispettabile dalla quale si è affacciato nelle ultime settimane, quando, raccogliendo l’insoddisfazione delle folle per l’esclusione del pro-russo Georgescu dalla corsa presidenziale, ne è diventato il nuovo idolo.
Poche idee e confuse... ma ben diffuse
Ora che la vittoria presidenziale sembra a portata di mano, la sua retorica si sta ammorbidendo. «Ho creato un partito in cinque anni senza soldi», ha detto in un’intervista al “Financial Times”, ammettendo l’inesistenza di una vera piattaforma elettorale: «Ho dovuto dire cose che facessero notizia». Ripete che la sua linea politica non è lontana da quella di Giorgia Meloni, politica di estrema destra ma saldamente atlantista e rispettata a Bruxelles, con il caveat che è contrario agli aiuti all’Ucraina perché «la guerra deve finire». E se ripete che potrebbe avere Georgescu come primo ministro, se lui lo volesse, il suo programma di governo rimane un completo mistero, al di fuori della promessa elettorale di costruire centinaia di migliaia di appartamenti da vendere a prezzo di costo, nonostante un deficit fiscale del 9 per cento. I mercati non apprezzano: la valuta nazionale (leu) è crollata rispetto all’euro e l’ultima asta di titoli di Stato, la settimana scorsa, è stata ritirata per mancanza di adesioni.
Il futuro (salvo sorprese) presidente rumeno è l’ultima espressione di un sovranismo populista che sta mettendo in crisi un’Unione nata proprio per combattere quei sovranismi che portarono alle due, catastrofiche, guerre mondiali. E che oggi una parte degli europei sembra volere indietro, forse nell’illusione che possano proteggerli da un mondo che cambia più velocemente delle loro vite.
Non è un caso che a sostenere Simion ci siano, oltre a Orbán, l’intramontabile Marine Le Pen, lo slovacco Robert Fico, la tedesca Alice Weidel dell’Afd, e, soprattutto, Nigel Farage, l’altro grande vecchio del populismo europeo, che, dopo avere condotto il Regno Unito fuori dalla Ue, ha fondato il suo partito, Reform, con cui vuole sostituire i Tories, giudicati incompetenti, e mettere fine a ogni tentativo della sinistra al governo di un riavvicinamento a Bruxelles.
Il neosovranismo spopola tra i giovani
Ma a impensierire ancora di più chi le barriere sovraniste del Vecchio Continente non vuole tornare a erigerle non sono tanto i vecchi quanto i giovani leader sovranisti alla Simion, come il francese Jordan Bardella, classe ’95 e numero due di Le Pen, capaci di affascinare le nuove generazioni, che poco e male sanno delle tragedie del secolo scorso e che, spaventate dall’immensa incertezza di questi anni, cercano sicurezza negli stampi sporchi del passato.
«Non vogliamo gli ebrei, gli omosessuali, l’aborto, le tasse e l’Unione Europea», tuonava nel 2019 l'allora trentaduenne polacco Slawomir Mentzen, leader di Nuova speranza, un partito ancora più conservatore di Giustizia e Libertà (PyS), tanto da promuovere addirittura il ripristino delle punizioni corporali nelle scuole.
Anche in Polonia si affaccia il sovranismo duro e puro
Mentzen domenica, come Simion, sarà candidato alla presidenza. In Polonia. A differenza del collega, ha scarse possibilità di farcela. Almeno questa volta. Perché se la Ue potrà in futuro contare solo sui tribunali – dalla Romania alla Germania, passando per la Francia – per tenere lontana la marea nera di un sovranismo che la vuole sfaldare dall’interno, allora sarà difficile che sopravviva a lungo senza aggiornare le regole della sua struttura e tagliare quei rami secchi che ne indeboliscono l’intero impianto. Non sempre il numero fa la forza.