Un territorio chiuso, con una serie di zone cuscinetto presidiate dall’esercito. Nessuna possibilità di fuga se non la migrazione controllata. Aiuti con il contagocce sotto controllo israeliano. Ecco a cosa punta Netanyahu

Il piano finale è annientare i palestinesi e prendersi la Striscia

Io mi trovo a Khan Younis, vicino a Rafah. Ogni notte continuano a fare esplodere gli edifici. C’è l’inferno, non si dorme mai». Sami Abu Omar, cooperante dell’associazione Acs Italia, si trova nel Sud della Striscia di Gaza, là dove a fine marzo 400mila persone che vivevano a Rafah sono state costrette a sfollare per ordine di Israele. «Soldati israeliani non ne vediamo, perché vorrebbe dire morire: sparano a qualunque cosa si muova». Come riporta l’International Crisis Group (Icg), dal 18 marzo, quando sono ripresi i bombardamenti israeliani sulla Striscia, sono stati uccisi più di 1.600 palestinesi. Lo stesso numero di morti israeliani dal 7 ottobre 2023. L’organizzazione non governativa attiva nella prevenzione dei conflitti ha descritto nel suo ultimo report le nuove mire di occupazione della Striscia da parte dell’esercito israeliano.

 

Rafah, città valico con l’Egitto, e unica uscita che non porta a Israele, è stata assediata, e all’attivo c’è un piano che la sta radendo al suolo per creare una buffer zone (“zona cuscinetto”) che isoli completamente il territorio palestinese. Intanto, i negoziati sono a un punto morto. «Il problema è che gli obiettivi del governo israeliano vanno oltre gli ostaggi. Vogliono distruggere Hamas e, idealmente, far sì che il maggior numero possibile di palestinesi lasci Gaza. È difficile capire come Hamas possa accettare», spiega il project director per Israele e Palestina del Crisis Group, Max Rodenbeck: «Il mondo intero può davvero restare a guardare 2,2 milioni di persone morire? Qualcosa in questa equazione deve cambiare». Il progetto israeliano punta a quella che chiama la “migrazione volontaria” dei gazawi, che è nei fatti un progetto di espulsione forzata. Con questo obiettivo, a oggi, le Israel defence forces (Idf) controllano il 50 per cento dell’intera Striscia di Gaza. 

 

Il piano è frammentare il territorio sul modello di ciò che è accaduto in Cisgiordania. Rafah, dopo quanto accaduto nel Nord di Gaza negli ultimi mesi del 2024, è l’operazione più massiccia. L’avvocato ed ex direttore della Commissione indipendente per i diritti umani di Gaza, Salah Abdel Ati, rifugiato al Cairo con i suoi figli, racconta com’è avvenuta la presa della città: «All’inizio, i soldati hanno chiesto alle persone di andare via da Rafah, ma non hanno dato loro il tempo per farlo. Dicevano: avete 10 minuti. Allo scadere dei quali iniziavano a sparare. Non gli importava che le persone fossero nelle tende o nelle case: entravano con i carri armati. In un’ora hanno ucciso 55 persone».

 

La prassi non è stata uguale per tutti: dopo aver istituito un checkpoint per accedere a Khan Younis, alcune persone sono state mandate là, altre uccise, altre imprigionate, altre catturate e fatte attendere per ore, fino a che, con le strade distrutte sfollare era diventato sempre più complicato. «Sappiamo anche di persone uccise ai checkpoint, nell’area di Mirage a nord di Rafah».

 

Gli esperti dell’Icg spiegano la strategia israeliana attraverso tre elementi di novità. Il primo è l’intensità dei metodi: la durata dell’assedio si prevede molto più lunga sul territorio e lo scopo esplicito è rendere Gaza ingovernabile. Il secondo è un cambiamento profondo della Striscia a livello demografico, geografico e di architettura di sicurezza, usando la terminologia israeliana. Rientrano in questo i checkpoint, le buffer zone e la concentrazione dei civili in piccole aree. Come spiega l’ultimo report dell’organizzazione di veterani ed ex combattenti israeliani, Breaking the Silence, la zona cuscinetto viene chiamata dai soldati israeliani “Perimetro”, perché circonda tutta la Striscia con profondità diverse a seconda dei punti (da 800 a 1.500 metri), oltre a suddividerla attraverso dei corridoi che la tagliano in orizzontale. L’ultimo a essere costruito è proprio quello che sigilla Rafah, il corridoio Morag, che il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, dice «aver trasformato Rafah in una zona di sicurezza israeliana».

 

Il terzo e ultimo punto di novità degli scopi di Israele, secondo Icg, riguarda la possibilità verosimile del governo di estrema destra guidato da Benjamin Netanyahu di prendere il controllo dei territori occupati e assestare un colpo decisivo a ogni prospettiva plausibile di autodeterminazione palestinese.

 

Abdel Ati concorda: «Il piano del governo, anche prima del 7 ottobre, è sempre stato quello di finire di soggiogare la Palestina». Il Crisis Group sottolinea che «i vantaggi militari di Israele sono formidabili». Ma allo stesso tempo, Breaking the Silence scrive che «se la storia ci insegna qualcosa è che barriere e zone cuscinetto non saranno mai una garanzia di protezione assoluta. L’occupazione militare non può rimpiazzare una soluzione politica».

 

Lo stesso rapporto fornisce alcuni numeri: il 16 per cento della Striscia di Gaza è stata rasa al suolo per costruire il Perimetro. Il 35 per cento erano terreni agricoli. Solo le scuole di Unrwa si sono salvate. Per il resto, i soldati israeliani avevano un ordine chiaro: tutto ciò che si trovava nella zona delimitata doveva essere eliminato, reso “sterile”. A gestire le operazioni sul territorio è Eyal Zamir, nuovo capo dell’esercito molto vicino a Netanyahu. Nella sua idea c’è anche imporre un’amministrazione militare di Gaza e la gestione israeliana dell’approvvigionamento dei beni. Sono infatti più di cinquanta giorni che a Gaza non entrano aiuti umanitari: cibo, acqua, medicinali, carburanti, prodotti di prima necessità. Il progetto israeliano prevede la costruzione di “isole umanitarie” dentro Gaza, attraverso le quali supervisionerà la distribuzione degli aiuti. «Il piano» dice Salah Abdel Ati «sembra essere quello di far diventare Rafah una prigione e chiedere alle persone di entrare per prendere il cibo». Rodenbeck sostiene che «Israele ha il potere di creare tali isole. Ma –  si chiede – ha la volontà di pagare il costo delle vite dei propri soldati e poi quello per sostenere un'occupazione militare così pesante?». 

 

Una stima israeliana riporta che il dispiegamento a lungo termine delle divisioni costerebbe ai cittadini circa 7 miliardi di dollari all'anno, escluse le spese umanitarie e di ricostruzione. «Israele continua a dare segnali contrastanti», commenta Rodenbeck. «Da un lato minaccia un'azione militare dura e veloce. Dall’altro il ministro degli Affari strategici dichiara che la guerra finirà forse tra un anno». Se Israele pensava di poter annichilire Hamas con facilità, punendo la popolazione di Gaza, si sbagliava, perché «ormai questa strategia è fallita e ora si è tornati a quella della lentezza».

 

Le conseguenze per la popolazione sono devastanti. La Croce Rossa ha dichiarato che Gaza è «sull’orlo del collasso totale» Abu Omar racconta con una nota vocale gli ultimi giorni: «La situazione è sempre più difficile perché tutti i valichi sono chiusi. Non entra niente, Gaza è sigillata. La gente ha fame: manca la farina, lo zucchero, il sale, l’olio. Abbiamo bisogno di cibo e non possiamo produrre niente. Fabbriche e panifici sono distrutti. Anche prima le cose entravano giorno per giorno, non abbiamo accumulato nulla. Ora c’è anche il problema dell’acqua potabile: gli impianti sono tutti fermi per mancanza di carburante». Il World Food Programme ha emanato una nota di allarme: tutto il cibo in magazzino è finito.

 

«Noi ora dobbiamo lottare per vivere. Penso che questa non sia una guerra: è un genocidio», dice Abu Omar. «Lo sta pagando la popolazione civile. Tutti sono colpevoli, anche l'Occidente e le Nazioni Unite: nel 21esimo secolo il mondo civile lascia la gente morire di fame».

 

La voce di Salah Abdel Ati, fuori dal contesto traumatico della Striscia, è lucida ed è un appello: «Lo spero tanto, spero tanto di tornare a Gaza. E credo che sia un nostro diritto», afferma, «ma se l’occupazione non finisce non possiamo tornare, né trovare una soluzione per una Palestina democratica. Oggi Israele non dà alcuna possibilità alla Palestina di accedere a un processo di pace: solo con il sostegno della comunità internazionale potremo fermare la violazione continua dei diritti umani».

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