Due prefabbricati alla periferia di Leopoli, un tetto di lamiera, un corridoio condiviso, e un mucchio di giocattoli per bambini. Non sembra, ma questo è un avamposto di resistenza. Qui si combatte un altro tipo di guerra: quella delle donne sole, con figli piccoli e case che non esistono più. Si chiama Unbroken Mothers il centro nato all’inizio dell’invasione russa che negli ultimi tre anni ha ospitato centinaia di madri sole, fuggite dalle regioni orientali.
«Unbroken Mothers è nato nel maggio 2022, nel pieno del caos. All’inizio il centro era pieno. Oggi restano le donne che non sono potute partire per l'estero. Le più giovani e le più sole», spiega a L’Espresso Suor Andrea Kisil, infermiera ed ex operatrice nell’ospedale di Leopoli, che gestisce il centro da due anni. «All’inizio c’erano tantissime donne. Ora si sono aperti altri centri, ma anche gli aiuti sono finiti. Gli aiuti americani che davano sostentamento alla maggior parte dei centri di Leopoli sono stati bloccati, per questo è importante il sostegno che oggi ci arriva dall’Italia, è importante che Mediterranea Saving Humans continui a venire qui». Tredici donne adesso vivono stabilmente nel centro con i loro figli.
Alcuni bambini sono nati qua dentro, tra letti a castello e pareti sottili. Qui si resta fino ai tre anni del figlio, poi si va. Dove, non si sa. Perché un posto in cui tornare, queste donne, non ce l’hanno più.
Nelia viene da Mariupol. Ha 25 anni, lavorava in polizia. Era incinta di tre mesi quando ha deciso di fuggire, dopo aver trascorso un mese sotto l'occupazione Russa. Ha attraversato Zaporižžja, poi Leopoli. «Mio figlio è nato qui. Non ha mai visto altro», racconta. Vive 24 ore su 24 da sola con suo figlio. «Mi manca la mia casa. I miei genitori li ho visti l’ultima volta a settembre. Vorrei solo del tempo per me». Suo marito, anche lui poliziotto, lavora a Kramators'k. Per una madre rifugiata, la solitudine è spesso un fatto quotidiano e in guerra anche un rischio: «È pericoloso che i Russi sappiano che sono stata una poliziotta. Per questo non posso tornare». La sua casa è ancora in piedi ma Mariupol non è più la sua città. «Voglio tornare. Ma solo in una Mariupol libera», racconta.
Katerina di anni ne ha 33, è fuggita da Cherson dopo un bombardamento vicino alla sua casa. Era sola con un neonato di tre giorni. «Avevo troppa paura. Ho preso mio figlio e sono salita su un treno, senza sapere dove sarei finita», spiega. Oggi è a Leopoli: «Qui - dice - è un’altra vita». Gli allarmi ci sono ancora, «ma almeno non cadono i missili». Non lavorava prima e non lavora ora. Il compagno è in carcere. «Non chiedo tanto, vorrei una casa. E un po’ di libertà», conclude.
Natalia, 26 anni, viene dalla regione del Luhansk. Suo marito è al fronte. È stato lui a dirle: “Non c’è più tempo”. Era l’estate del 2022, pochi mesi dopo l’inizio dell’invasione russa. «Ho preso quello che potevo e sono andata. Ero già pronta, sapevo che prima o poi sarebbe arrivato quel momento». Sua figlia è nata qui dentro, «non credo mia figlia vedrà mai il posto da cui provengono i suoi genitori, non credo che torneremo mai indietro. La nostra casa è stata distrutta e lì adesso ci sono i russi», continua. Nei pochi giorni di congedo il marito viene a trovarla qui a Leopoli. Ma Natalia vive sola, e senza mezzi termini conclude: «Ho perso la mia casa. Ho perso la mia libertà». Nel tempo fermo della guerra, però, qualcosa continua a cambiare: non solo la geografia del conflitto, ma anche quella sociale. «Le donne a Leopoli stanno sostituendo gli uomini - tutti al fronte - nei lavori pubblici. Guidano i bus, lavorano nelle infrastrutture statali. Lo Stato ha alzato gli stipendi per incoraggiarle. È una rivoluzione silenziosa e necessaria», conclude suor Andrea. Eppure, chi resta in un centro come questo sembra fuori da ogni rivoluzione. Invisibili, periferiche, esiliate nello spazio dell'attesa.