Il fallimento di Israele. La violenza che si manifesta con il controllo dei corpi e dei movimenti. E il dovere di valorizzare le vite troncate dalla guerra. Parla l’autore ebreo e premio Pulitzer

Fondamentalmente, penso che ciò che la scrittura può fare in questo momento è muoversi al di là dei meri dati numerici relativi ai 50mila morti di Gaza e valorizzare cosa queste 50mila vite significhino: si tratta di persone diverse, ciascuna con la propria storia, i propri diritti, i propri sogni». Destino inusuale, quello del giornalista e scrittore israeliano Nathan Thrall: ebreo statunitense – nato 44 anni fa in California e residente oggi a Gerusalemme – manifesta una profonda solidarietà alla condizione palestinese, risultando per questo inviso sia alle frange estremiste israeliane che alla compagine araba radicale.

 

Il suo nuovo lavoro, il romanzo-reportage “Un giorno nella vita di Abed Salama. Anatomia di una tragedia a Gerusalemme” – pubblicato in Italia da Neri Pozza nella traduzione di Christian Pastore – prende le mosse da un incidente stradale che causa sei vittime fra i bambini palestinesi, cagionando la drammatica odissea di un padre, Abed Salama, che cerca di conoscere la sorte del figlio di cinque anni in un intrico di ostacoli burocratici, fisici ed emotivi strettamente correlati alla sua condizione di palestinese. L’esistenza di Abed si incrocia con quella di altre persone – un’insegnante d’asilo e un meccanico, un ufficiale israeliano e un funzionario palestinese, un colono paramedico, operatori sanitari ultraortodossi e due madri, entrambe anelanti che il figlio ferito ma vivo sia il loro – tutte coinvolte nella medesima tragedia. Un’opera intensa e polifonica, che è valsa al suo autore l’assegnazione del premio Pulitzer 2024.

 

Thrall, partiamo dal suo libro. Qual è l’aspetto più drammatico relativo alla storia di Abed Salama?

«L’aspetto più drammatico è sicuramente quello relativo all’incidente del bus, avvenuto il 16 febbraio 2012 e costato la vita a sei bambini palestinesi e alla loro insegnante. Questa tragica vicenda costituisce il motivo fondante in cui convergono altre storie, ciascuna con la propria indifferibile carica drammatica: dalla storia d’amore in stile Romeo e Giulietta fra Abed e la sua promessa sposa – che non si concluderà con l’auspicato matrimonio – a quelle di due madri, la prima che ha visto arrestare il proprio ragazzo – allora poco più che adolescente – e ha trascorso un anno e mezzo a visitarlo in prigione, e la seconda incolpata per aver permesso al figlio di partecipare alla gita fatale».

 

Un giorno nella vita di Abed Salama è ambientato in Cisgiordania prima della guerra nella Striscia di Gaza. Si può considerare il presente conflitto come il collasso definitivo di un sistema che non funziona?

«Ogni volta che lo Stato di Israele impiega una considerevole quantità di forza viene suggellato il fallimento di un sistema che perdura giorno dopo giorno che, in condizioni normali, esercita quella che la gente chiama violenza strutturale».

 

Di cosa si tratta?

«Di un tipo di violenza che si esplica attraverso il controllo dei movimenti delle persone, l’arresto dei loro bambini, il monopolio dell’erogazione di permessi di lavoro: esistono molti livelli di controllo e coercizione. L’enorme carneficina che si sta consumando nella Striscia di Gaza, a cui stiamo assistendo, altro non è che il riflesso del fallimento di questo sistema, la dimostrazione plastica della disfatta israeliana nella gestione del conflitto. Subito dopo il 7 ottobre, alcuni nutrivano la speranza che si sarebbe potuto verificare un cambiamento, che Israele avrebbe avuto consapevolezza della propria incapacità di gestire il conflitto e del prezzo troppo alto da pagare, e avrebbe adottato un altro approccio. Così non è stato, come abbiamo constatato negli ultimi mesi».

 

Continuano gli scontri a Gaza. Di chi è la responsabilità maggiore riguardo alla rottura della scorsa tregua?

«Mi preme evidenziare come, anche prima della ripresa dei bombardamenti israeliani sulla Striscia, Israele aveva già violato la tregua: non ha consegnato la quantità promessa di tende, non ha rilasciato i prigionieri secondo i tempi pattuiti, non si è ritirata dal Corridoio Filadelfia, come avrebbe dovuto fare dal cinquantesimo giorno. La più significativa violazione commessa, tuttavia, riguarda la politica della fame che ha imposto: ha letteralmente affamato Gaza, interrotto l’elettricità e bloccato il piano di desalinizzazione che avrebbe permesso l’accesso all’acqua potabile a centinaia di migliaia di persone. Israele aveva voltato le spalle agli accordi presi  – e, quindi, alla tregua  – molto prima dello scorso martedì, quando si è consumata la violazione definitiva. Ciò non vuol dire che non si potrà arrivare a una nuova tregua ma che, anche se si presentasse una nuova possibilità, bisognerà ricordarsi della storia recente».

Raid israeliani in Libano e in Siria. Si riaprono altri due fronti di guerra?

«Israele, in realtà, sta combattendo su più fronti. Non dimentichiamoci infatti della Cisgiordania, dove più di quarantamila palestinesi vivono come sfollati all’interno dei campi profughi, e dei bombardamenti in Yemen. E poi ci cono Libano e Siria, occupati anche territorialmente dallo Stato ebraico».

 

All’interno del governo si levano voci discordi. Qual è la sua opinione riguardo alla tenuta della coalizione?

«Il governo è più stabile rispetto a quando Ben-Gvir aveva rifiutato di continuare a far parte della compagine governativa finché la guerra non fosse ricominciata. Ora che Israele ha ripreso a bombardare Gaza, Ben-Gvir torna a garantire maggiore stabilità al governo. Per inciso, anche il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, che ha posizioni analoghe, nel momento in cui Ben-Gvir aveva lasciato il governo ha affermato: “Vi prometto che Israele riprenderà la guerra”. Nel momento in cui entrava in atto la Fase uno della tregua, che sarebbe poi dovuta passare agli step successivi, lui ha scandito queste parole ad alta voce. Questa coalizione ha dovuto fronteggiare ingenti manifestazioni di protesta in relazione alla nuova riforma giudiziaria, andate avanti per molti mesi prima del 7 ottobre – e può stare sicuro che continueranno – e, nonostante tali proteste, nulla è cambiato ai vertici del governo, non è avvenuta alcuna riflessione in merito al proprio operato».

 

Come giudica la sinergia fra il leader israeliano Benjamin Netanyahu e la nuova amministrazione di Donald Trump?

«L’unico piano che il presidente americano avrebbe potuto avallare pubblicamente è rappresentato dal trasferimento volontario dei gazawi. L’idea di pulizia etnica avrebbe suscitato aspre critiche e obiezioni presso l’opinione pubblica. Il governo israeliano ha annunciato la creazione di una nuova amministrazione per supervisionare l’emigrazione dei palestinesi dalla Striscia. Il ministro delle Finanze Smotrich, a febbraio scorso, ha incontrato la stampa per esporre questo nuovo progetto e nell’intervista ha evidenziato che si tratta di “una questione seria, abbiamo approntato gruppi di lavoro in sinergia con gli americani per mettere a punto il progetto”. Poi è ripresa la guerra a Gaza e abbiamo ricominciato a bombardare quei palestinesi che vorremmo espellere. Questo è il motivo per cui la discussione relativa al trasferimento volontario è stata spesso descritta dai politici israeliani come qualcosa di radicalmente diverso dalla pura pulizia etnica».

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