Tiziana Roggio, siciliana di 37 anni, chirurgo plastico, è volontaria nell’Ospedale Nasser di Gaza con l’ong inglese Ideals:
Cosa ha pensato quando è entrata nella Striscia?
«Varcato il confine, ero terrorizzata. Tremavo, mi sono sentita impotente davanti al disastro che vedevo fuori dal finestrino. Sapevo che sarei entrata in una zona di conflitto, ma nulla può prepararti a Gaza».
Qual è la situazione all’ospedale Nasser?
«È uno dei pochi ancora parzialmente funzionanti nella regione e l’ultima struttura nel Sud di Gaza. Fornisce cure continue e salvavita, comprese quelle che richiedono un alto livello di assistenza, ossigenoterapia o procedure chirurgiche complesse. Versa in una situazione estremamente critica».
Che tipo di operazioni svolgete più spesso?
«I pazienti arrivano in condizioni disperate. Tanti vengono soccorsi molto dopo l’evento traumatico. Un paziente con una grave ferita da esplosione al bacino è rimasto nella sua tenda per tre giorni prima di arrivare qui. I mezzi di soccorso sono limitati, le strade distrutte. Le ferite più comuni sono ustioni gravi, amputazioni traumatiche, lesioni da proiettile o da crollo. Molti dei pazienti hanno fratture complesse, ferite penetranti e perdita di tessuti molli. Alcuni sviluppano infezioni gravi, a causa della mancanza di antibiotici o di assistenza adeguata. La maggior parte dei pazienti sono neonati con ustioni, bambini di 6-7 anni con fratture esposte o mutilazioni. Oggi ho eseguito un’amputazione di gamba su una bambina di 7 anni che aveva già perso l’altra. È stato davvero difficile».
Come organizzate il vostro lavoro?
«Lavoriamo circa 12 ore al giorno senza sosta. La sera pianifichiamo la lista operatoria per il giorno successivo, ma poi ci sono sempre nuovi feriti da inserire. Le procedure più complesse spesso devono aspettare, perché le ferite sono altamente contaminate».
Quanti ospedali sono ancora operativi a Gaza?
«Solo 17 ospedali su 36 sono ancora parzialmente funzionanti. Un numero ben al di sotto delle necessità e del numero di feriti. Negli ospedali manca tutto, lavoriamo con mezzi improvvisati, come i sistemi di posizionamento dei pazienti sul tavolo operatorio, camici sterili che sono stati cuciti a mano. Riutilizziamo, dove possiamo, sterilizzando ogni cosa più volte».
È alla prima esperienza di guerra?
«Sì, non avevo mai sentito il rumore di una bomba che cade vicino, né il ronzio incessante dei droni sopra la testa, giorno e notte. Ti ricorda che non sei al sicuro e che la morte può arrivare improvvisa, anche mentre stai operando».
Qualche giorno fa la famiglia della pediatra Alaa al-Najjar è stata sterminata da una bomba israeliana: i medici, le loro famiglie e i pazienti sono un target?
«Ho incontrato Alaa al-Najjar. È una collega straordinaria, una donna forte e profondamente devota al suo lavoro. È venuta a ringraziare me e i miei colleghi perché abbiamo operato suo figlio, l’unico ancora in vita di 10 fratelli, questo solo qualche giorno dopo aver perso quasi tutta la sua famiglia in un bombardamento. In questa guerra nessuno è al sicuro».
E lei, Tiziana, come sta?
«Sto bene, sono stanca, fisicamente ed emotivamente. Ma sono anche grata e quando mi guardo intorno non sento di avere diritto di lamentarmi. Non è facile dormire, mangiare, vivere con il rumore delle esplosioni o le immagini dei pazienti feriti. Ma ogni giorno in cui riusciamo a operare, a salvare una vita, un arto, a guarire una ferita o un’ustione, ha un valore inestimabile. All’Europa chiedo di difendere il diritto alle cure e che gli aiuti umanitari possano arrivare davvero, dove servono».
Cosa di questa guerra non si è capito in Occidente?
«Ho l’impressione che si guardi a questa guerra con distacco, come se fosse qualcosa di irreale. Ma ciò che accade qui è concreto. Non è facile spiegarlo a parole, ma se chi guarda da lontano potesse venire qui anche solo per un giorno, credo vedrebbe le cose in modo molto diverso».