Di fronte alle minacce russe, con l'ombrello Usa che si chiude, la comunità economica avverte l'urgenza della sicurezza ai confini. Pur con le sue ombre, il piano von der Leyen è un primo passo

Difesa europea: avanti a piccoli passi

Dopo il successo della Comunità economica del carbone e dell'acciaio (Ceca), Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell'Europa, aveva provato a creare anche la Comunità europea della difesa, con l'idea che avrebbe prevenuto il ritorno della guerra in Europa e garantito la difesa nei confronti di una crescente ostilità sovietica. Ma il progetto fu bocciato dal Parlamento francese, preoccupato sia della perdita di sovranità sia del riarmo tedesco. Da allora la costruzione di un'Europa unita è proseguita intorno all'idea di una prosperità economica comune: tutto ciò che riguardava armi e difesa fu affidato agli Stati Uniti tramite lo strumento della Nato. Gli Usa spendevano in armamenti e noi in scuole, ponti e welfare, ben oltre il Dopoguerra; loro duellavano “a freddo” con la Russia, noi organizzavamo il tifo. La Germania aveva scambiato la produzione di carri armati con quella di auto civili, diventando leader mondiale. Con la fine della Guerra fredda e il successo della globalizzazione sul crinale del secolo scorso, eravamo entrati nel nuovo Millennio convinti che la pace garantita dagli americani, in cui le uniche armi utili agli europei erano quelle del commercio, non sarebbe finita mai. Anche perché entrando nel club del G8, perfino la Russia sembrava avere abbracciato il nuovo ordine occidentale.

 

Ma nel 2014 Mosca invade la Crimea, incrinando l'ottimismo. La maggior parte degli europei scelse di chiudere gli occhi e di continuare a comprare petrolio e brindare con gli oligarchi russi a Forte dei Marmi. Ci è voluto il triennio 2022-2025 per mettere fine ad ogni illusione, a scrivere, con lettere prese a prestito dalle grammatiche di Vladimir Putin e Donald Trump, che il mondo è cambiato: la minaccia della Russia è tornata. Mosca ogni giorno non solo conquista un'ulteriore fetta dell'Ucraina ma testa i confini orientali della Nato con sabotaggi, sorvolo di droni, spionaggio, incendi criminali (come descritto dalla Ong Acled) dopo avere indebolito per anni la coesione europea dal suo interno, con una vasta rete di propaganda digitale. Contestualmente, l'ombrello Usa si sta chiudendo, lasciandoci per la prima volta da tre generazioni in balia del meteo geopolitico.

Attrezzarsi per la guerra per garantirsi la pace

Oggi se l'Europa vorrà continuare a costruire la propria Unione, unica dimensione in cui può continuare a vivere in pace, come già aveva intuito Monnet 80 anni fa, dovrà farlo attrezzandosi nuovamente per la guerra. O meglio, per «ottenere la pace attraverso la forza», come ha detto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen nel lanciare il programma di riarmo europeo, con l'obiettivo di scoraggiare un'attacco russo a un Paese dell'Unione: una sfida esistenziale. L'alternativa l'ha chiarita qualche giorno fa il segretario olandese della Nato, Mark Rutte: imparare il russo. E perdere la democrazia.

 

Fosse soltanto l'ossatura di un piano di spesa militare per mettere l'Europa in condizioni di difendersi nel 2030, “ReArm Europe”, il piano proposto lo scorso marzo dalla Commissione e in via di approvazione sarebbe debole. Per due motivi: l'assenza di un fondo comune, che lo rende utile solo agli Stati fiscalmente forti e la mancanza di un'autorità centrale che decida cosa comprare, ruolo oggi affidato al Consiglio dei 27 capi di Stato, in balia delle opinioni nazionali.

 

Ma quel piano è molto più di un primo strumento per riarmare l'Europa, sostenendo la produzione bellica, dopo oltre trent'anni di disarmo accelerato tra miriadi di progetti militari nazionali, troppo piccoli, costosi e disomogenei. È un primo passo concreto per superare il passato, rafforzando la capacità militare complessiva in una situazione geopolitica sempre più precaria e abbozzare un complesso percorso che riesca a conciliare la ritrovata esigenza di sicurezza con il benessere dei cittadini, senza sacrificare la coesione a 27. Un'impresa titanica per un'Unione che è diventata prevalentemente commerciale ma che dal 2019, con la transizione verde e digitale, ineludibile con la fine dell'era industriale, e l'emergenza sanitaria della pandemia, fronteggia crisi colossali che possono essere risolte solo ponendo in comune politiche e risorse.

 

Per costruire una difesa europea cinque anni non basteranno, concordano esperti e aziende del settore, perché l'industria ha regole e tempi che sono difficilmente comprimibili. Ne serviranno almeno dieci. Ma la situazione sul campo sta evolvendo velocemente e l'Europa ha poco tempo. Sicuramente non abbastanza per darsi una struttura politica comune che possa sostenere correttamente una spinta militare integrata. Il principale generale americano in Europa, Christopher Cavoli, stima che la Russia stia producendo oltre mille carri armati l'anno, un numero superiore all'intera produzione occidentale, e che abbia una capacità militare molto superiore a quella di inizio 2022, dopo avere portato la spesa in armamenti a oltre un terzo della spesa pubblica.

 

In questo contesto «la nozione che dovremmo preferire una difesa comune è illusoria», scrivono Andrea Gilli – lettore all'Università di Saint Andrews e consigliere presso l'ufficio del sottosegretario alla Difesa italiano – Mauro Gilli, ricercatore di Affari militari presso l'Università ETH di Zurigo, e Niccolò Petrelli, professore di Studi strategici presso l'Università di Roma Tre: «Se la minaccia è alta si fa quel che si può. Non importa quanto spenda la Russia: quello che importa è la volontà di attaccare. Non vuole conquistare l'Europa perché adesso non potrebbe farlo ma può attaccare alcuni Paesi sul fronte orientale per minare quell'allargamento europeo che ha messo in crisi il suo sistema cleptocratico».

ReArm Eu solo un primo passo verso la difesa comune

ReArm Europe è il braccio finanziario del Piano europeo della difesa (Edis) messo a punto l'anno scorso dopo una serie di provvedimenti già presi negli anni precedenti come la Pesco, la Cooperazione strutturata permanente del 2017, il Fondo europeo per la Difesa nel 2021, lo European peace facility nel 2022, l'Edirpa, lo strumento per forniture comuni, del 2023. Tutti piccoli e insufficienti passi che dimostrano però il tentativo concreto di costruzione di un impianto difensivo comune e di lotta alla frammentazione della produzione militare dell'ultimo mezzo secolo, tra resistenze politiche nazionali e conflitti di competenze. In questi giorni la Commissione europea, su richiesta del Consiglio dei 27, dovrebbe annunciare una direttiva omnibus per la Difesa per semplificare il quadro giuridico e amministrativo, dalle regole degli appalti pubblici a quelle della cooperazione, e ridurre gli ostacoli che ne impediscono un rapido sviluppo, Pmi incluse. Secondo i dati della Commissione, la mancanza di cooperazione nel campo dell'industria della difesa costerebbe all'Europa tra i 25 e i 100 miliardi annualmente.

 

«La politica di sicurezza e difesa è in gran parte di competenza nazionale e il quadro di cooperazione più rilevante resta la Nato», dice Guntram Wolff del think tank Bruegel. Cambiare lo scenario è difficile e lungo, oltre che costoso: inevitabile la politica dei piccoli passi. «Avevo imparato che non si può agire su linee generali, partendo da un concetto vago, ma che tutto diventa possibile se si riesce a concentrarsi su un punto preciso che determina poi tutto il resto», scriveva Monnet dopo avere sostituito il progetto iniziale di un'Europa federale con quello della Ceca.

 

Non tutti concordano. «Un riarmo senza una governance appropriata mette a rischio i valori che vorrebbe difendere», dice Tiago Antunes, senior fellow dello European Council of Foreign Relations: «La Ue ha urgentemente bisogno di un ombrello politico e di un percorso legale che connetta gli Stati mentre si riarmano. Se non è possibile, allora si potrebbe cominciare da una coalizione dei volenterosi composta da un numero ristretto di membri, usando meccanismi come il Pesco a fare da struttura di base per ulteriori integrazioni». Che è poi anche l'idea di Francia, Germania e Polonia e del loro triangolo di Weimar che sta informalmente guidando il riarmo europeo.

 

Ma qualsiasi rafforzamento della capacità bellica non sarà sufficiente a costruire una difesa comune senza l'adesione dei cittadini al progetto. Senza un cambio di mentalità. Servono militari formati nelle nuove tecnologie e competenze strategiche in una società caratterizzata da declino demografico, scarso sostegno al servizio militare e irrilevanza degli studi strategici nelle università. Senza contare che nessuno difenderà mai un'idea politica a cui sente di non appartenere. Quella dei cuori e delle menti è forse la sfida più grande che l'Europa dovrà affrontare. Con sforzi creativi proporzionali solo ai pericoli che la minacciano, come diceva Robert Schuman.

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