Non bastassero il boomerang dei dazi e la rivolta degli ex amici, dopo Harvard, il presidente inaugura il braccio di ferro securitario in California. E il suo potere vacilla

Donald Trump è vittima dei suoi conflitti

Sul mio impero non tramonta mai il sole», diceva Carlo V d’Asburgo. Qualche nube si sta invece addensando sul “regno” trumpista, la postdemocrazia compiuta in cui il tycoon rieletto presidente ha ormai convertito gli Stati Uniti. Sui quali ha voluto calare una conclamata svolta autoritaria finalizzata a disarticolare quel peculiare sistema di “checks and balances” che li rendeva – seppur con qualche spruzzata di retorica – un modello di democrazia liberalrappresentativa.

 

E, invece, sull’onda di una polarizzazione ideologica che si trascina ormai da parecchio tempo – e che aveva vissuto una delle sue stagioni più eclatanti durante le amministrazioni Obama – anche l’America vede consumarsi in maniera pressoché definitiva il divorzio tra costituzionalismo e cultura politica liberali e concezione assolutistica – e “totalitaria” – del voto popolare (ossia, il rinnovato “primato dell’elettoralismo” delle narrazioni neopopuliste). Eppure, lo strapotere di Trump mostra più di qualche incrinatura. Certo, l’emozione pubblica – surrogato post-postmoderno dell’opinione pubblica – è in piena febbre da Carnevale populista, e i tantissimi supporter del presidente in carica non appaiono granché propensi a riconoscere la distanza oceanica fra le promesse e i dati di fatto. E la postverità viene, giustappunto, sparsa a piene mani nel Brave New World trumpista. Ma la realtà ha la testa dura e presenta il conto. È quanto sta precisamente avvenendo fra conflitti con la magistratura e l’accademia, minuetti minacciosi e inconcludenti sulle politiche commerciali, rinnovate corrispondenze d’amorosi sensi con il dittatore russo Vladimir Putin. E, soprattutto, rivolte di (un altro) popolo, come è successo in quella California che costituisce una “bestia nera” e il principale laboratorio della resistenza politica nei suoi confronti proprio quando pensava di averla tendenzialmente domata grazie all’ascesa della Big Tech di (ultra)destra capitanata da Peter Thiel e delle intese con quelli che, con troppa leggerezza, erano stati considerati dei miliardari digitali di orientamento progressista. E, invece, dopo l’uscita concordata, il presidente si è ritrovato l’ex buddy boy Elon Musk interprete di una – intermittente, ma durissima – opposizione del re.

 

Per evidenti ragioni geografiche (e politiche), il Golden State al confine con il Messico ha dei confini assai “porosi”, con una forte presenza di migranti irregolari, tra i quali molti che svolgono una vita normale, con delle famiglie, e forniscono il loro contributo all’economia a stelle e strisce, specialmente nell’ambito di quei lavori “non qualificati” che i Wasp non svolgono più. Nel vocabolario Maga le metropoli progressiste californiane sono, quindi, divenute le “città santuario” dell’immigrazione clandestina da espugnare in quello che è uno scontro eminentemente di tipo politico. Così si spiega anche la durezza delle parole rivolte da alcuni ministri, più lealisti del re, contro il governatore Gavin Newsom e la sindaca di Los Angeles Karen Bass, fino a ventilare addirittura il loro arresto (una sconsiderata intimidazione incostituzionale), dopo che Donald Trump li aveva accusati di «incompetenza» e di fomentare l’«anarchia», vale a dire – fuor di propaganda – le proteste scoppiate dopo l’arresto a fini di espulsione nella «Città di quarzo» di 150 migranti. Una miccia che ha acceso altre rivolte a San Francisco: disordini seri, ma lontani dalla descrizione apocalittica dell’amministrazione, che ha effettuato l’ennesimo strappo inviando la Guardia nazionale senza una richiesta da parte delle autorità locali. Un fatto senza precedenti, considerando che l’ultimo caso avvenne nel 1965, quando – a parti invertite, si potrebbe sostenere – il democratico Lyndon Johnson spedì i militari federali in Alabama a protezione degli attivisti per i diritti civili dei neri soggetti alle violenze dei suprematisti razzisti e agli attacchi organizzati dal Ku Klux Klan.

 

Un ulteriore conflitto fra poteri dello Stato scatenato dalla strategia trumpista di sfondamento dei limiti costituzionali e dall’incontenibile insofferenza populista nei confronti della rule of law. La deriva securitaria, finalizzata a ricorrere a poteri emergenziali e a proclamare à la carte le “50 sfumature” dello stato d’eccezione, costituisce un perno della piattaforma autoritaria di Trump, che punta a de-costruire gli architravi dello Stato di diritto e a fiaccare ogni forma di contropotere e corpo intermedio, da sottoporre alla potestà (e ai capricci) della finta disintermediazione fra il Capo e il suo popolo. Ovvero, in una parola, alla depoliticizzazione, officiando un matrimonio indissolubile fra neoliberismo e populismo (da cui i primi a non trarre alcun beneficio di rilievo saranno proprio i ceti popolari).

 

La buona notizia, dunque, è che, dopo il disorientamento iniziale – e a dispetto dello stato letargico del Partito democratico soffocato da dinastie e oligarchie –, alcuni settori dello Stato e della società civile mostrano il loro attaccamento alle libertà democratiche. Ecco perché si moltiplicano significativamente i fronti di conflitto, sostanzialmente pacifici nonostante la deliberata esasperazione e criminalizzazione operata dalla Casa Bianca e dai media estremisti fiancheggiatori. Per parafrasare il mugnaio Arnold dell’epoca di Federico II di Prussia, per fortuna “c’è ancora un giudice a Washington”. E c’è ancora Harvard. E, a dare grattacapi a Trump, c’è pure la lotta per l’egemonia dentro il “fascismo (postmoderno) americano” fra la tech right e il populismo Maga, con Steve Bannon ripiombato al centro della scena nelle vesti di nemesi di Musk.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Le crepe di Trump - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso

Il settimanale, da venerdì 13 giugno, è disponibile in edicola e in app