Non è passato uno spillo per ottanta giorni a Gaza: il lungo assedio israeliano ha impedito a qualsiasi bene di entrare nel territorio palestinese. Poi novanta camion, una goccia nell’oceano per le due milioni e mezzo di persone ancora nella Striscia, stremate da mesi di attacchi e bombardamenti.
Qualcuno ha deciso che non è più il momento di guardare, ma di agire. Trentadue delegazioni (ora cinquantatré, ndr) da tutto il mondo e centinaia di persone hanno già deciso di partire per la prima azione civile che si avvicini il più possibile a quel fazzoletto di terra da cui è impossibile fuggire: è la Global March to Gaza, una marcia per raggiungere Rafah, tra Egitto e Gaza, e arrivare al valico con l’obiettivo di negoziare l’apertura con le autorità egiziane, in collaborazione con Ong, diplomatici e istituzioni umanitarie, in modo pacifico e senza forzare alcuna barriera.
Un movimento che da subito si è definito pacifista, apolitico e indipendente, che non segue nessuna ideologia o religione, ma che si fa portavoce del volere dei cittadini, inascoltati dai propri governi: per mesi le piazze di tutto il mondo si sono riempite per la Palestina all’urlo di «free free Palestine», con manifestazioni che hanno coinvolto migliaia di persone, senza però portare ad alcun cambiamento.
«Per me è un’emergenza fare qualcosa, è tempo di usare il corpo, questa è l’unica medicina di cui abbiamo bisogno, creare relazioni. Perché tutto ormai passa dagli algoritmi, mentre molti di noi soffrono nel non poter far nulla», racconta Francesco, 34 anni, fotografo freelance che ha deciso di partire da Milano insieme alla compagna. «Non conta neanche il successo dell’azione finale. Bisogna esserci, in un momento in cui sta diventando pericoloso smettere di fare azione, mi riferisco al ddl sicurezza voluto dal governo Meloni».
L’idea di una marcia è nata in seno a quanti lavorano nel campo dei diritti umani, non solo con il popolo palestinese, ma in tutte le situazioni sottoposte a crisi o guerre. I promotori sono cooperanti, medici, reporter, esperti di conflitti. Come la dottoressa Regula Grabherr Fawzi, svizzera, che a Gaza ha istituito un progetto per il trattamento dell’endometriosi; Manuel Tapial, attivista ispano-canadese arrestato nel 2010 a bordo di una nave che stava portando aiuti a Gaza: intercettati dalle forze israeliane, morirono nove persone. C’è poi Hicham El Ghaoui, di origini marocchine, capo della delegazione svizzera: medico tornato da poco da Gaza, ha visto con i suoi occhi morire decine di pazienti per mancanza di condizioni sanitarie minime.
Tutti sono uniti dai principi di giustizia, dignità umana e pace. Per questo l’appello è rivolto, ed è stato accolto, anche a quelle persone che nella vita sono lontane da queste dinamiche. Come Laura, 41 anni, pilota di elicottero antincendio: «C’è una frustrazione penso comune a tutti quelli che vogliono partecipare, una sensazione di impotenza che ci accomuna: dopo mesi di video atroci, ho amici che non dicono nulla, che vedono tutto questo come lontano, ma non lo è. Se si sta permettendo di fare tutto questo a loro, un giorno potrebbe essere fatto a noi», spiega la donna che partirà da Roma.
L’adesione che ha toccato più parti del mondo – ci saranno partenze dall’Australia, Cile, Malesia, Sudafrica – è passata attraverso i social e gruppi di incontro su Telegram in cui le persone si sono divise per coordinarsi al meglio. L’appuntamento è il 12 giugno al Cairo, mentre il 15 giugno a Rafah: gli ultimi quaranta chilometri di questo tragitto, da Al-Arish, saranno percorsi a piedi, lungo la strada desertica da cui per mesi sono inutilmente passati i camion pieni di aiuti poi marciti sotto il sole.
Tre giorni di marcia, pochi chilometri al giorno per non affaticare nessuno ed evitare le ore di caldo estremo, per avvicinarsi simbolicamente alla popolazione palestinese, ma con un obiettivo molto concreto. I pericoli ci sono e su questo l’organizzazione, che è in contatto con le ambasciate egiziane e il governo, è stata chiara: ci sarà tutto il supporto logistico, legale e sanitario, la priorità è la sicurezza dei partecipanti. Il programma prevede due giorni davanti al terminal per sfruttare al meglio la potenza mediatica dell’iniziativa.
Ad affiancare via mare la marcia “per rompere l’assedio” ci sarà anche la Freedom Flotilla Coalition, che è partirà il primo giugno dal porto di Catania in Sicilia, a bordo anche Greta Thunberg e la deputata europea Rima Hassan, insieme ad altri attivisti. Un’altra coalizione dalla Tunisia si aggregherà: un “convoglio di resistenza”, coordinato dall’organizzazione politica Coordination of Joint Action for Palestine. Anche Zwelivelile Mandla Mandela, nipote di Nelson Mandela, ha dato il suo appoggio, con lui l'irlandese Mairead Corrigan Maguire, premio Nobel per la Pace.
Nonostante alcune aperture di Netanyahu sugli aiuti, non ci sono certezze: pare infatti che il leader di Israele sia stato richiamato dagli Stati amici per evitare una crisi umanitaria. In ogni caso Bibi mira al controllo di tutta la Striscia e alla deportazione dei palestinesi.
«Nessuno sta reagendo alla tragedia, per questo è necessario creare pressione morale e mediatica: se gli Stati falliscono, la gente deve intervenire – spiega a L’Espresso Antonietta Chiodo, portavoce della delegazione italiana, reporter di guerra che ha lavorato con la popolazione palestinese – se ci uniamo possiamo le cambiare le cose per fermare il genocidio di Israele».
«Mi sono sempre chiesto: ma se fosse successo davanti a me l’Olocausto cosa avrei fatto?», racconta Daniele, 50 anni, consulente informatico che partirà per l’Italia. Da poco è stato in West Bank come volontario, senza esperienza pregressa: «Ho provato a dare supporto alle famiglie, come me attivisti da tutto il mondo, anche israeliani, che denunciano le vessazioni dell’esercito che fa di tutto per farli andare via. I coloni gli avvelenano i pozzi d’acqua, distruggono i pannelli solari, le case, le reti, ci sono persone in galera da vent’anni e non sanno perché».
«Dopo tanti anni mi sento di usare la parola popolo senza abusarne, perché questo è un movimento di popolo», spiega Maria Elena, referente per il Piemonte della marcia, nella vita insegnante di matematica. «Abbiamo background e idee diverse, ma siamo uniti, perché ci sentiamo parte di un’unica famiglia umana, come diceva Vittorio Arrigoni. Un piccolo miracolo in un tempo in cui ci siamo abituati all’indifferenza generale».