Questa è la guerra di Zelensky, Putin e Biden, non di Trump». A dirlo è stato lo stesso Donald Trump, in un eccesso di rabbia dopo l’ennesimo bombardamento massiccio russo sulle città ucraine. Ma parlare di sé in terza persona non sottrae il presidente degli Stati Uniti dalle sue responsabilità, per non citare le sue promesse.
È stato il tycoon a riabilitare Vladimir Putin sullo scacchiere internazionale, forse convinto che sarebbe bastato dare all’omologo russo importanza e visibilità per convincerlo a interrompere l’invasione dell’Ucraina. Sempre Trump ha annunciato entusiasta in più di un’occasione che si era a un passo dal cessate il fuoco. Eppure il campo, dunque la realtà della guerra, lontana dai proclami di Washington, dice tutt’altro. L’attività dell’aviazione e dell’artiglieria russa si è intensificata nelle ultime settimane, invece (come sperava Trump) di scemare per permettere l’avanzamento dei negoziati. I reparti del Cremlino nell’Est continuano ad attaccare per tentare lo sfondamento nel Donetsk e l’eventualità che a breve si aprano nuove direttrici d’avanzamento diventa sempre più plausibile. Mosca sfrutta il disinteresse statunitense per Kiev, il «fastidio», dicono fonti vicine alla Casa Bianca, in un gioco al massacro che non sembra mai portare a una rottura definitiva con il nuovo estimatore d’oltreoceano. Ma se c’è un imprevisto che potrebbe stravolgere lo scenario corrente è proprio la volubilità del leader Maga. Per quanto ancora Putin e i suoi potranno tirare la corda prima che gli Usa decidano di introdurre le nuove, e temutissime dai finanzieri russi, sanzioni secondarie, oppure, o magari in aggiunta, aumentare le forniture militari all’Ucraina? Sullo sfondo resta una seconda ipotesi, sempre meno peregrina con il trascorrere dei mesi e degli insuccessi diplomatici: il disimpegno statunitense. Non sarebbe la prima volta ed è evidente com’è andata a finire negli altri casi.
«Questa guerra non sarebbe mai iniziata se fossi stato presidente», è il ritornello di Donald Trump. Spostare il biasimo interamente su Joe Biden è sempre stata la sua strategia. Fin da quando prometteva nei suoi comizi-fiume, tra un balletto e una smorfia, che una volta eletto avrebbe «terminato la guerra in 24 ore». La nuova amministrazione Usa si è insediata il 20 gennaio, oltre 4 mesi fa, e i missili russi continuano ad abbattersi sulle città ucraine così come al fronte centinaia di soldati di entrambi gli schieramenti continuano a morire. Certo, si sono svolti i colloqui di Istanbul e i delegati di Russia e Ucraina si sono parlati per la prima volta dalla primavera del 2022. Ma Putin fino alla sera prima ha tenuto la diplomazia in scacco, obbligando Zelensky (accorso in Turchia per l’occasione) a fare anticamera per due giorni prima di rientrare in patria come l’ultimo dei vassalli invisi all’imperatore. Ma, soprattutto, costringendo Trump a scoprirsi («se Putin dovesse venire io potrei partecipare… spero che Putin verrà… Putin verrà solo se partecipo anch’io», aveva dichiarato durante il suo tour mediorientale coevo al vertice di Istanbul) e a tornarsene negli States con la consapevolezza di essere stato preso in giro ancora una volta dall’omologo dagli occhi di ghiaccio.
Infine lo sfogo: «Putin è impazzito. Sta uccidendo molte persone. Missili e droni contro le città in Ucraina senza motivo» – bollato dal Cremlino come «reazione emotiva». A osservare bene stupisce come la carneficina in atto in Europa dell’Est sia diventata una questione personale per il presidente Usa. La frase, «lo conosco da tempo e sono sempre andato d’accordo con lui» riferita a Putin spiega molto dell’approccio di Trump. Ma qui la megalomania è solo una parte del contesto, ben più complesso, che dà all’inquilino della Casa Bianca la certezza di poter influenzare le sorti del mondo. Supremazia militare ed economica (pur con gli scricchiolii degli ultimi tempi) sono molto più cogenti. Tuttavia, il tentativo del Cremlino di accelerare l’avvento di quel «mondo multipolare» tante volte invocato nei discorsi pubblici di Putin e dei suoi propagandisti, è evidente. Il tutto mentre la guerra commerciale con la Cina si è risolta con un pareggio forzato che ha mostrato al mondo fragilità prima sopite per l’aquila a stelle e strisce. Dal modo in cui la guerra in Ucraina terminerà dipenderanno molti degli equilibri geopolitici futuri e le decisioni di Trump influenzeranno molto anche l’indirizzo della politica estera statunitense negli anni a venire. Se, come vuole il vice-presidente Vance, «bisogna chiuderla in fretta in Ucraina per dedicarsi alla Cina che è il nostro vero nemico», sussistono comunque numerosi scenari possibili. In primis, il tentativo di portare Mosca lontano da Pechino al momento sembra fallito. In secondo luogo, un eventuale disimpegno statunitense porterebbe comunque alla conclusione che l’arbitrato di Washington non è più così ineluttabile, anche laddove esistono evidenti interessi strategici (gli equilibri Nato/Russia in Europa) ed economici (idrocarburi, terre rare e metalli fondamentali per l’industria tecnologica). Inoltre il solco tra le decisioni di Trump e Bruxelles, già scavato dai dazi e dagli obblighi di spesa per l’Alleanza atlantica, potrebbe arrivare a livelli mai conosciuti dal 1949 a oggi.
D’altro canto, anche per il governo russo le incognite non mancano. Proseguire la guerra in Ucraina vuol dire continuare a spendere parti preponderanti del Pil, secondo diverse stime tra il 7 e il 9 per cento, nello sforzo bellico. Con buona pace di chi ancora la chiama operazione militare speciale. Ormai l’economia russa è votata, e in parte dipende, dal conflitto. È indubbio che le triangolazioni con Paesi come l’Armenia o la Turchia sono riuscite ad alleviare il peso delle sanzioni, ma il peso di queste ultime ha comunque incatenato lo sviluppo economico del gigante eurasiatico che si è dovuto rivolgere ai mercati asiatici per ovviare ai deficit commerciali sia delle importazioni sia dell’export di gas e petrolio (limitando le perdite dovute alla chiusura del mercato europeo ma incassando meno). L’introduzione delle cosiddette sanzioni secondarie, ovvero dazi su tutte le merci prodotte con materie prime russe, anche se esportate da Paesi terzi, assesterebbe un colpo tremendo al bilancio della Federazione. Dal punto di vista militare la scommessa di Putin è sulla capitolazione del fronte occidentale, magari proprio grazie a Donald Trump come elemento disgregatore.
Nonostante i desideri del capo supremo, i soldati russi non sono riusciti a sfondare su nessuno dei principali campi di battaglia. Non è detto che ciò non avvenga a breve, ma il costo umano che i reparti stanno affrontando per pochi chilometri di avanzata forzata è altissimo. Gli ucraini soffrono meno perdite, i manuali di strategia militare insegnano che il rapporto tra le perdite dei difensori e degli attaccanti è di 1 a 3, ma gli eserciti in campo – e le rispettive popolazioni – partono da una sproporzione numerica molto maggiore. L’impatto devastante degli ultimi attacchi russi dipende sia dalle migliorie tecniche apportate agli armamenti russi sia dalla decrescente disponibilità di sistemi antiaerei per le forze ucraine. L’unica via d’uscita reale che si intravede nel breve termine passa per una decisione di Mosca, ma fino a quel momento il contesto bellico e umanitario non potrà che peggiorare.