Negoziatori senza esperienza, colpi di testa dei vertici, intelligence rimasta isolata. La politica estera di Trump è un pericolo anche per gli Stati Uniti. Dialogo con l’ex direttore della Cia

La Casa Bianca è in mano a incompetenti

La Situation Room non è più la sala delle lunghe consultazioni e delle decisioni ponderate. Oggi è ormai diventata il set del “one-man-show” di Donald Trump che, con il cappellino Maga in testa, rompe tutti gli schemi. Prima i quattordici giorni di “meditazione” sull’attacco, con il mondo in apnea; poi, all’improvviso, la notte dei B-2 che piombano su tre siti nucleari iraniani. A meno di quarantott’ore, il colpo di scena: la tregua tra Israele e Iran. Se sia solo un intermezzo o il prossimo passo verso il Nobel per la pace, non è ancora dato saperlo dato che la tregua si rivela subito fragile. Per orientarci nel caos, parliamo con Leon Panetta, direttore della Cia e ministro della Difesa durante l’amministrazione Obama.

Panetta, in un post del 2013 Trump aveva deriso Obama, insinuando – falsamente – che sarebbe intervenuto militarmente contro l’Iran perché non era un bravo negoziatore. Perché ha deciso di intervenire?

«Se al tempo la Casa Bianca ha cercato di prendere le distanze da ciò che Israele stava cercando di fare, oggi il presidente Trump ha praticamente abbracciato la visione di Netanyahu sull’Iran, ovvero colpire la loro capacità nucleare. Credo che questa sia la differenza principale».

L’intesa che gli Stati Uniti raggiunsero nel 2015 per limitare il programma nucleare iraniano in cambio della revoca delle sanzioni era stata da alcuni criticata. Avrebbe, però, evitato le bombe su Fordow, Natanz e Isfahan.

«Non credo ci siano dubbi sul fatto che l’accordo sul nucleare, a prescindere da come la gente lo avesse percepito, funzionasse, che fossero state effettuate ispezioni e che Teheran avesse limitato qualsiasi tipo di approccio all’uranio arricchito. Quando con Trump gli Stati Uniti si sono ritirati, all’Iran è stata sostanzialmente concessa la licenza di procedere con l’arricchimento. Credo che l’attacco sia stato la conseguenza del ritiro dall’accordo».

Al di là dei successi che Trump si intesta e che potrebbero svanire – come ci ha abituati – nel giro di poche ore, l’impressione è che gli Stati Uniti vengano percepiti come partner inaffidabili.

«È un problema reale. Dopo l’abbandono dell’ultimo accordo, l’Iran ha dichiarato che non ci si può fidare degli Usa. A mio avviso, mancano bravi negoziatori capaci di trattare. Il presidente a volte sembra credere che basti dire qualcosa perché accada, ma nel mondo reale, per negoziare davvero, bisogna sedersi lontano dai riflettori e affrontare punto per punto le questioni che devono rientrare in un accordo complessivo per contenere la capacità nucleare iraniana. Purtroppo, i nostri negoziatori non hanno molta competenza. Se gli Stati Uniti fanno sul serio, devono affidarsi a persone più esperte».

Trump, invece, ha nominato nei ruoli chiave due figure controverse: la filo-putiniana Tulsi Gabbard all’intelligence e Pete Hegseth, ex volto Fox, alla difesa. Entrambi criticati per la loro inesperienza e che hanno avuto persino un ruolo marginale nel dossier Iran. Cosa ne pensa?

«Sono preoccupato. In generale, è importante fornire al presidente le migliori informazioni possibili, in modo che possa decidere cosa fare. Quando il presidente ha affermato che i rapporti che stava ricevendo erano sbagliati, si è allontanato dal principio della verità. Il mio timore è che il rapporto tra l’intelligence e il presidente si sia momentaneamente interrotto».

Gli Usa sono preparati al pericolo di cyber attacchi e attentati anche guardando al lungo periodo?

«Il pericolo rimane. La mia speranza è che la nostra intelligence stia lavorando seriamente su questa questione per determinare cosa stia succedendo; poi che l’Fbi sia coinvolta e che le forze dell’ordine su tutto il territorio nazionale siano consapevoli della necessità di essere pronte ad affrontare una possibile minaccia».

A questo proposito, i licenziamenti fatti dall’amministrazione al personale federale, potrebbero avere un peso?

«È una possibilità reale: i tagli potrebbero aver fiaccato la nostra intelligence e la capacità di riuscire a rispondere tempestivamente».

Con gli alleati nella regione indeboliti, qual è lo stato reale di Teheran oggi?

«Non ci sono dubbi che Israele, con l’aiuto americano, abbia colpito duramente sia Hamas che Hezbollah, gli altri alleati e ora lo stesso Iran in seguito agli attacchi. Un cambio di regime, però, è difficile, sebbene Israele lo auspichi. Se quindi il regime continuerà, rimarrà un problema per la stabilità del Medio Oriente; sicuramente farà tutto il possibile per ottenere armi nucleari».

Nelle fasi iniziali dell’intervento, Netanyahu e Trump auspicavano un cambio.

«Per ottenerlo servono i “boots on the ground”, un attacco di terra. E non penso fossero interessati a farlo».

Ha frequentato a lungo la Situation Room in passato. Se fosse seduto vicino al presidente Trump cosa gli consiglierebbe?

«Secondo me, sia Israele che gli Stati Uniti non hanno davvero riflettuto su quale debba essere l’obiettivo finale. Se fossi nella stanza, raccomanderei al presidente di definire con chiarezza quale livello di danno all’Iran possa essere considerato sufficiente per dichiarare conclusa questa guerra».

A condannare l’attacco Usa in Iran sono stati i democratici, ma anche una parte del mondo Maga. In vista delle elezioni di metà mandato del prossimo anno, la base repubblicana potrebbe scollarsi e punire l’interventismo di Donald Trump?

«Se il presidente cogliesse l’occasione per una vera risoluzione, tutti ne trarrebbero beneficio. Ma se il conflitto si trascinasse, con Israele all’attacco e gli Stati Uniti al suo fianco, rischieremmo un’altra lunga guerra in Medio Oriente, proprio quella che Trump vuole evitare. E a pagarne il prezzo saranno i repubblicani».

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