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22 luglio, 2025Trump cavalca la furia giustizialista: riapre prigioni, allarga penitenziari e aumenta le detenzioni. Così la giustizia diventa un dramma sociale. E un business senza scrupoli
In principio era il muro. Ora sono le sbarre. Nel secondo tempo di Donald Trump alla Casa Bianca, le carceri sono diventate il nuovo feticcio. Rinchiudere e ostentare i muscoli: la ricetta del “law and order” è servita ogni giorno alla base più intransigente del popolo Maga.
Negli ultimi mesi, il governo ha spinto per la riapertura di almeno cinque penitenziari dismessi e per l’ampliamento di prigioni e centri per immigrati senza documenti, destinati all’espulsione. In ballo è tornata anche la base di Guantánamo, dove gli ergastolani della guerra al terrore fanno posto ai migranti catturati nei raid. I bersagli della nuova repressione. Molti non hanno precedenti o hanno commesso reati minori. Un terzo dei detenuti spediti a Guantánamo ha la fedina penale pulita, come pure tanti degli stranieri fatti volare senza processo a El Salvador, diretti al maxi-carcere di Cecot.
Sin dal suo insediamento, Trump ha spinto il sistema penale verso un modello più punitivo. Ha smantellato la banca dati sui poliziotti violenti, tagliato centinaia di programmi e imposto restrizioni ai reclusi transgender. Ha ordinato pene più dure e cancellato le riforme volute da Joe Biden (inclusa la moratoria sulla pena di morte federale), che miravano a ridurre le condanne, limitare le carceri private e ampliare le misure di reinserimento. Il tutto per mano della ministra della giustizia Pam Bondi, incarnazione vivente della dottrina della tolleranza zero. La sparata più clamorosa di Trump, però, resta la proposta (impossibile) di riaprire Alcatraz, oggi museo. In attesa di restaurare la fortezza californiana di Al Capone, è arrivato un piano B: l’Alligator Alcatraz, una struttura nelle paludi Everglades della Florida, presidiata da una fauna minacciosa di alligatori, serpenti e zanzare.
«Sono trovate a effetto. Al presidente piace mostrarsi duro ai suoi elettori. Non prova empatia, soprattutto quando si tratta di rinchiudere in cella le minoranze. È tutto un esercizio di potere e immagine». John Burris osserva l’America trumpiana con lo scetticismo di chi, per decenni, ha dovuto fare i conti con un sistema endemicamente malato. Avvocato per i diritti civili, si batte da una vita contro la brutalità delle forze dell’ordine e la discriminazione. La sua fama esplose negli anni Novanta, quando difese Rodney King, l’uomo pestato dalla polizia di Los Angeles: un caso che incendiò il Paese grazie alle immagini dell’aggressione rubate da una telecamera.
Andiamo a incontrarlo a casa sua, su una collinetta che si affaccia su Oakland in California. La chiacchierata è anche un’occasione per riprendere il discorso sulla situazione drammatica delle carceri americane. Gli attivisti come Burris non sono sorpresi: sapevano che Trump non avrebbe riscoperto la clemenza e non avrebbe mai rinunciato al piacere di saziare l’appetito giustizialista. Eppure, durante il primo mandato, aveva sostenuto alcune riforme. Come il First Step Act del 2018, che puntava a ridurre le condanne federali inutilmente lunghe, migliorare le condizioni e favorire il reinserimento. Un pacchetto che però ha prodotto risultati modesti. «Sono molto preoccupato dagli sforzi di questa amministrazione. Assistiamo a una graduale eliminazione dei diritti fondamentali delle persone», avverte Burris, denunciando come l’ossessione carceraria sia un moltiplicatore di danni.
Ma l’apparato era in affanno molto prima che il tycoon tornasse alla Casa Bianca. Quella statunitense, infatti, è una piovra con migliaia di istituti che sorvegliano 2 milioni di persone, inghiottendo ogni anno 182 miliardi di fondi pubblici. Secondo la Prison Policy Initiative, ci sono oltre 1.500 prigioni statali, un centinaio federali, più di tremila locali e circa un migliaio tra centri di detenzione per migranti e minori. Dagli anni Settanta, con l’escalation della “war on drugs”, la popolazione dietro le sbarre è cresciuta del 500 per cento. Tanto che oggi, gli Stati Uniti pur contando meno del 5 per cento della popolazione mondiale, hanno oltre il 20 per cento dei reclusi del Pianeta. «Le incarcerazioni di massa sono un problema enorme e non solo per il detenuto in sé. Negli anni devastano le famiglie, ma anche quartieri e comunità con un danno sociale irreparabile. Ora, chi finisce in gattabuia? Per la maggior parte persone di colore, ovvero neri e ispanic»”, ci dice indignato Burris.
«Per anni le leggi sulle droghe sono state applicate in modo sproporzionato contro gli afroamericani: facevano uso di marijuana, cocaina e crack agli stessi livelli dei bianchi ma venivano puniti dieci volte di più». I numeri gli danno ragione: nonostante costituiscano il 13 per cento della popolazione, rappresentano circa il 37 per cento dei detenuti. Secondo l’American Civil Liberties Union, oggi un bambino nero su tre può aspettarsi di finire in prigione nel corso della vita, uno su sei tra i latinoamericani e appena uno su 17 tra i bianchi.
Un destino che riflette decenni di ingiustizie. «Ho praticato diritto penale a lungo. Le scene che ho visto in tribunale mi hanno disgustato. È un sistema profondamente razzista. Per reati simili, la punizione per i neri è sempre più dura di quella per i bianchi», ci racconta. «È impossibile ignorare la disparità. Quando la marijuana è stata legalizzata per la prima volta in posti come Washington D.C. o in Colorado, la gente faceva festa, ma intanto le carceri erano piene di afroamericani arrestati per averla venduta in strada. Non grandi trafficanti, solo ragazzini, piccoli spacciatori». Soprattutto poveri, in una nazione in cui la miseria è una condanna preventiva: cauzioni di 10mila dollari tengono migliaia di persone in cella per mesi in attesa di processo. Iniquità che presenta conti generazionali. In Usa quasi metà dei detenuti soffre di disturbi mentali, ma spesso non riceve cure adeguate. L’uso della forza e dell’isolamento aggrava ansia, depressione e paranoia. Un carcerato ha una probabilità tre volte maggiore di morire per suicidio. Il sovraffollamento cronico, le carenze di personale e le violenze, poi, rendono impossibile qualsiasi recupero.
Ma la questione è anche finanziaria. «Ci sono enormi interessi economici legati al sistema privatizzato delle carceri americane – ci spiega Burris – L’amministrazione e parte dei repubblicani stanno cercando di privatizzare molti servizi pubblici». Lo conferma un rapporto della nonprofit Marshall Project: le grandi aziende che gestiscono i penitenziari privati (che oggi ospitano l’8 per cento degli internati) stanno vivendo un’espansione senza precedenti grazie alle politiche del presidente. A fregarsi le mani sono colossi come CoreCivic, ad esempio, che si sono aggiudicati i contratti per confinare migranti per conto dell’Immigration and Customs Enforcement. Queste compagnie stanno registrando un’espansione massiccia e una domanda crescente di celle private finanziate dal governo federale. «Le prigioni sono motori economici per intere comunità – sottolinea John Burris – Creano una catena di servizi e posti di lavoro da cui molti traggono profitto. Quando si parla di chiuderle, i sindacati carcerari sono i primi a protestare: vogliono che la gente continui a finire in gabbia». Perché nell’America di Trump, la libertà diventa merce, la sofferenza un business in attivo.
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