Mondo
30 luglio, 2025Israele si accanisce contro i luoghi simbolici per convincere i palestinesi ad andarsene. Come nel caso del caffè Al Baqa. E chi si ostina a raccontare la verità diventa un bersaglio
Una giovane giornalista di venticinque anni di nome Nadra Al Tibi. Una voce risoluta, che mi dice: «Ho giurato a me stessa che non uscirò mai da qui. Non in questo momento. Gaza non ha mai avuto tanto bisogno di noi come ora».
Nadra il 30 giugno 2025 era a Khan Yunis assieme al collega Mohammad Al Akhras, stava lavorando sul luogo dell’ennesimo massacro su donne e bambini in attesa degli aiuti umanitari. Riceve una chiamata: Caffè Al Baqa è stato bombardato. I ricordi che ha di quel caffè sono vividi. Valicano le immagini della morte che ha di fronte a sé. Mi racconta che in quel luogo andava a studiare negli anni di università in cui frequentò la facoltà di lettere, che quel caffè su due piani aveva il più bell’affaccio sul mare di Gaza. «Era un luogo per tutti. Il piano superiore era adibito per le famiglie e quello inferiore per i giovani. La gente andava ad Al Baqa caffè per staccare dalla frenesia, perché era un luogo calmo». Sospira. «Sai qual è la cosa più strana? Che quel luogo è rimasto tale anche durante il genocidio». Anzi, per essere precisa lei non chiama “genocidio” quel che accade a Gaza. Utilizza il termine “mahraqa”. Letteralmente “luogo in cui tutto brucia”. Mi racconta che le tende in cui la gente è accalcata sono caldissime. Dentro quelle pareti di nylon si superano i quaranta gradi.
«Anche durante la mahraqa la gente andava al Baqa per staccare, per ricordarsi dei momenti felici». Alla notizia, lascia tutto e si dirige verso il caffè. Arriva sul posto dopo circa un’ora e mezzo. «Al mio arrivo stavano ancora prelevando martiri dalle macerie». Riesce a riconoscere i corpi di alcuni colleghi, come quello di Ismail Abu Hatab, fotografo e regista conosciuto in tutto il mondo. Si fa forza. «Quello non era il momento di piangere. Ma il momento di essere forti, di scrivere, filmare, fare una giusta testimonianza».
«Eppure – mi dice – le immagini che vedo di fronte a me tradiscono le mie parole. Sentivo di non averne abbastanza per descrivere l’orrore che vedevo. Capelli di bambini insanguinati, pezzi di bambini sparsi in giro per il caffè». Su quel caffè chiamato Al Baqa, che significa “permanenza” si era abbattuta una bomba MK-82 da 230 kg, progettata per obbiettivi militari, devastante in contesti urbani. «Alcuni corpi, dalla forza della bomba erano volati in mare, potevamo vederli galleggiare, privi di vita».
Mentre lei racconta, io sto in silenzio. Anche io mi sento tradita dalle parole. Lei continua a chiedere: «Sei ancora lì?», «ci sei?» è ossessionata dal fatto che da un momento all’altro Israele possa interrompere la chiamata, staccare l’elettricità.
Perché, secondo te, hanno colpito proprio quel caffè? Le chiedo. «Perché Israele sa che l’assassinio dell’essere umano comincia dalla distruzione di tutto ciò che lo lega alla terra: persone, ricordi, luoghi. Al Baqa non era un semplice caffè, era un luogo-simbolo per il ritrovo sociale, culturale, politico di Gaza. Era chiamato caffè dei giornalisti perché era un luogo in cui i giornalisti si ritrovavano spesso. Aveva una connessione internet molto buona, e quello splendido affaccio sul mare».
Era un attacco mirato ai giornalisti, quindi? «Sì, perché dall’inizio di questa mahraqa Israele sta conducendo una guerra contro la verità. Contro i giornalisti e il giornalismo. Contro i luoghi in cui si pratica il giornalismo. Vogliono uccidere la verità dovunque si trovi, in una tenda, in casa, in un ospedale, in un caffè. Per farci capire che non abbiamo sicurezza né protezione. Sono più spaventata quando indosso la pettorina rispetto a quando non la indosso».
Eppure sanno che nonostante questo sterminio di giornalisti, la verità di Gaza, in qualche modo, arriva al mondo. «Vero, ma restiamo comunque un bersaglio. Perché un giornalista, un sahafi è shahed, sawt e sura. Ed essere queste tre cose in un’unica persona è pericoloso, siamo il principale nemico della loro falsa narrazione. Non solo siamo giornalisti ma siamo giornalisti di Gaza. Lavoriamo, lottiamo mentre loro vorrebbero che fossimo senza personalità alla costante ricerca di cibo e sicurezza».
Penso alla bellezza di questa lingua. Tutto comincia con la “s”. La parola giornalista “sahafi” e poi le parole “shahed”, testimone, “sawt” voce, “sura” immagine”. Non un caso. La sua voce così forte mi fa pensare ai 228 giornalisti uccisi a Gaza dall’ottobre 2023. Se erano tutti così potenti, non solo Gaza, ma l’intero mondo ha perso persone dal coraggio, dal valore inestimabile.
Conosci colleghi spaventati, che vorrebbero ritirarsi da questo mestiere? «No. Ogni volta che uccidono uno di noi, nasce un nuovo giornalista, portatore della stessa verità di quello appena ucciso. C’è una domanda che mi faccio ogni giorno che mi sveglio viva in questa mahraqa. Questa domanda non può capirla nessuno che vive all’infuori di questo lembo di terra. Mi chiedo: Chi tra di noi è il vero morto? Chi viene ucciso o chi si sveglia ogni giorno in questa realtà così difficile?».
La domanda resta appesa, accade ciò che lei temeva: la connessione si interrompe. Resto sola. Vibrazioni positive mi attraversano, Nadra mi ha donato e confermato una certezza: il giornalismo non è mai stato un mestiere, ma una missione. E chi ha vissuto per una missione giusta non muore mai. L’eco della nostra voce si dispiega oltre i confini del tempo, rimane in vita, anche dopo la nostra morte, soprattutto dopo la nostra morte.
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