Mondo
19 settembre, 2025Nelle piazze di tutto il mondo i manifestanti indossano abiti ed espongono simboli che non hanno bisogno di voci
In questi giorni, gran parte del mondo occidentale è sceso e scenderà in piazza per manifestare la vicinanza al popolo palestinese. La forza della condivisione e dell’aggregazione di persone di ogni nazionalità per opporre al genocidio di Gaza non tanto un’ideologia politica, quanto un sentimento di compassione sociale e di contiguità semplicemente umana.
E tra slogan, striscioni e sentite grida di insofferenza per una violenza sempre più insensata, risalta anche quello che il Guardian chiama abbigliamento da protesta. “Indossalo forte, indossalo con orgoglio” è il titolo con cui il quotidiano britannico indipendente vuole sottolineare l’indubbia forza espressiva che una certa omologazione in quello che si indossa durante una protesta in sé possiede, e conseguentemente, al di fuori di sé esprime. Rinsaldando quel sentimento di unione e di riconoscimento reciproco che in una civiltà dell’immagine come quella attuale aggiunge valore e consistenza a figure, oggetti e colori che da simboli diventano emblemi.
Così alle esplosioni e alla devastazione si risponde con la kefiah, indossata anche da papa Benedetto XVI nel 2009 e dal cardinale Pierbattista Pizzaballa il giorno di Natale del 2023. O con le angurie, che diventano orecchini, pendagli, anelli, adesivi per auto, ricami su maglie e felpe.
Un richiamo simbolico che risale al 1967, all’epoca dell’occupazione della Cisgiordania, di Gaza e di Gerusalemme Est. Il governo israeliano vietò l’esposizione pubblica della bandiera palestinese e fuori dalle abitazioni, sui balconi e nei giardini, iniziarono a spuntare angurie spaccate in due. Con i loro colori. Il nero dei semi, il rosso della polpa, il bianco e il verde. Una bandiera palestinese racchiusa nel frutto che, guarda caso, è una falsa bacca, già abituato alla trasmissione di un messaggio quasi subliminale, costituito per il oltre il 90% di acqua. Che oggi a Gaza manca.
Lo stilista palestinese Ayham Hassan, intervistato dal Guardian, ha presentato alla Central Saint Martins di Londra una collezione che vuole stimolare la discussione su un concetto che riguarda la sua cultura e il genocidio a Gaza. «Diventa una protesta senza mezzi termini per la liberazione della Palestina», dice Hassan, e c’è anche una sciarpa di tatreez realizzata da sua madre, che per essere recapitata a Londra ha fatto numerosi passaggi e trasferimenti.
Il tatreez, esibito da alcuni manifestanti nelle ultime proteste, è un ricamo, una decorazione che ha permesso alle donne palestinesi di esprimere la loro identità e la loro storia. In arabo significa abbellimento, ma è più che altro il mezzo e il risultato di una forte resistenza culturale, uno dei pochi modi rimasti per preservare ciò che rischia di essere cancellato per sempre. Ricami che riprendono fiori, alberi, animali. Fili colorati che disegnano sul tessuto le crepe della terra, i fiumi prosciugati, la polvere dei crolli e la devastazione delle bombe.
Oggi anche gli occidentali che mostrano i loro volti nelle piazze prendono in prestito questa tradizione, consapevoli della centralità del rispetto e del significato profondo che in chiaroscuro traspare dai tessuti colorati e da quei simboli che d’ora in avanti ricorderanno qualcosa di diverso rispetto a quanto si è abituati a ricordare. In un percorso di (ri)costruzione della memoria che inizia da adesso.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Heil Putin - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 19 settembre, è disponibile in edicola e in app