Dalle bombe possono scappare i ricchi; lo si è visto nei primi giorni di guerra tra Israele e Iran, quando a uscire da entrambi i Paesi sono stati coloro che potevano permetterselo. La guerra acuisce le disuguaglianze e le rende più evidenti. Ma all’interno di quello che è diventato “lo Stato nazionale del popolo ebraico”, a essere più evidenti non sono solo le disuguaglianze economiche ma anche il sistema di apartheid a cui è sottoposta la popolazione arabo-palestinese che vive dentro i confini di Israele e a Gerusalemme Est.
Nella notte tra il 14 e il 15 giugno Manar Fakhri Dhiab Khatib, palestinese con cittadinanza israeliana, si trovava nella sua casa a Tamra, a nord di Tel Aviv, quando un missile iraniano l’ha colta nel sonno insieme alle sue tre figlie, uccidendole tutte. Manar, come il 46 per cento delle famiglie palestinesi dentro Israele, non aveva accesso a rifugi antiaerei. Secondo il report “Acute Shortage of Protective Infrastructure for Arab Residents in Israel” pubblicato il 17 giugno 2025 da Bimkom – Planning and Human Rights, che denuncia la grave carenza di infrastrutture protettive nelle comunità arabe in Israele, quasi metà delle famiglie arabo-palestinesi non ha accesso a rifugi, contro una media nazionale del 26 per cento. Si stima che si tratti di circa 550.000 cittadini arabi, un dato probabilmente sottostimato in quanto è il risultato di un audit governativo risalente al 2018.
«La disparità di rifugi è il risultato di una discriminazione di lunga data dei palestinesi dentro Israele, in termini di accesso e distribuzione delle risorse, dei processi di pianificazione e delle opportunità edilizie. Si tratta di una forma strutturale di violenza che nega alla popolazione palestinese all’interno di Israele diritti fondamentali come il diritto alla terra, all’abitare e a pari opportunità di vita», spiega il professor Michal Braier, l’autore del report. «Il fatto che la maggior parte delle comunità in Israele sia ancora segregata lungo linee etno-nazionali è anch’esso il risultato di pratiche discriminatorie di pianificazione urbana. La maggior parte delle comunità arabe sono state private delle proprie riserve di terra, e confinate in piccole aree di sviluppo mai adeguatamente pianificate. Questo ha portato alla mancanza di infrastrutture pubbliche e a un’edilizia privata diffusa e informale, spesso sotto gli standard di sicurezza. Di conseguenza, queste comunità mancano di molti servizi, compresi i bunker». Secondo il report, oltre 300mila beduini vivono nel Negev, ma circa centomila risiedono in 35 villaggi non riconosciuti dallo Stato di Israele, quindi esclusi da catasto, pianificazione statale, rete idrica, elettrica, fogne, strade, scuole, sanità e rifugi antiaerei, e sono soggetti a continue demolizioni. Anche nei villaggi riconosciuti (abitati da altri 200mila beduini), molte case sono informali e senza rifugi. Dal 2023 sono stati installati solo 250 rifugi circa in tutto il Negev, metà grazie allo Stato, il resto da privati e Ong.
«Ci sono alcuni villaggi che non solo non hanno rifugi, ma le cui case recentemente sono state demolite dal governo a causa di costruzioni non autorizzate. Quasi 60 case sono state demolite all’inizio della settimana in cui è iniziata la guerra con l’Iran. Mentre si porta avanti anche la guerra a Gaza e in Libano, sembra molto urgente per lo Stato demolire le case beduine piuttosto che cercare la pace, fermare la guerra e riportare a casa i civili rapiti» denuncia Samera Abo Kaf studentessa di arte all’Università Ben Gurion e residente a Um Bateen, uno dei pochi villaggi nel Negev riconosciuti dallo Stato. «Intere famiglie non solo sono escluse dal diritto alla casa, ma anche dal diritto di mettersi al sicuro dai bombardamenti. Durante la guerra con l’Iran, i rifugi sono stati distribuiti in molte città ma i 48 villaggi beduini non sono stati inclusi. È ironico, esasperante, triste e offensivo».
A Gerusalemme Est, invece, i palestinesi sono classificati come “residenti permanenti” e sono soggetti a un violento e a lungo documentato regime di apartheid. Uno dei risultati è che pur vivendo sotto la legge israeliana e pagando le tasse allo stato di Israele, Gerusalemme Ovest ha circa 200 rifugi pubblici, mentre i palestinesi a Gerusalemme Est ne hanno solo uno. «È vero – continua il professor Braier – che c’è solo un rifugio pubblico in senso stretto di cui siamo a conoscenza, tuttavia, molti dei rifugi pubblici di Gerusalemme Ovest sono stati costruiti negli anni ’50 e ’60. Dopo, la maggior parte dei rifugi è stata costruita come parte di abitazioni private o edifici pubblici. Ma, anche considerando questi ultimi, il divario tra la parte israeliano-ebraica e quella palestinese della città è evidente: ci sono circa 60 rifugi pubblici per 400mila palestinesi che vivono a Gerusalemme Est, mentre Gerusalemme Ovest ne ha a centinaia (più di 500). Anche queste rientrano nelle pratiche discriminatorie di pianificazione edilizia».
All’indomani del 7 ottobre 2023 le autorità israeliane hanno creato un nuovo piano nazionale il cui scopo era semplificare e accelerare il processo di rilascio dei permessi per l’aggiunta di camere di sicurezza private e l’adeguamento di edifici pubblici con rifugi. Ma di fatto il programma ha spostato la responsabilità di fornire infrastrutture protettive ai privati e, nel caso di edifici pubblici, alle municipalità, senza fornire i mezzi per la loro attuazione. Questo va a scapito della popolazione meno abbiente e più svantaggiata, che in Israele è composta dai palestinesi: «Si tratta di una pratica neoliberista classica che accresce i divari socio-economici. La maggior parte delle comunità arabe si colloca ai livelli più bassi dei relativi parametri», continua Braier.
Come se non bastasse, quando Israele ha lanciato gli attacchi in Iran, ci si è accorti che nei centri arabi non esisteva alcuna mappa accessibile o aggiornata dei rifugi. Cercare “miklat” (rifugio in ebraico) o “malja’a” (in arabo) su Google Maps dava risultati solo nei centri ebraici. A Nazareth, ad esempio, non compariva nulla, mentre nella vicina Nof Hagalil (ebraica) c’erano decine di punti segnalati.
A colmare i vuoti lasciati dallo stato è la società civile e in sole 48 ore il collettivo arabo-palestinese Harmony ha creato “Safe Haven”, una mappatura dei rifugi per i palestinesi dentro Israele. «Mentre lo Stato israeliano ha ignorato per anni i bisogni dei cittadini arabi, questa iniziativa civile ha colmato un vuoto inaccettabile. Ma tutto ciò che abbiamo fatto noi, lo Stato avrebbe dovuto farlo un giorno prima», dichiara una delle volontarie di Harmony.
L’iniziativa ha anche messo in imbarazzo molte amministrazioni comunali, costringendole ad aprire rifugi scolastici precedentemente chiusi. La mappa ha evidenziato l’assenza di rifugi in intere città, dando alla popolazione uno strumento per fare pressione sui propri rappresentanti. «Con il conflitto con l’Iran – conclude Rawan Shalaldeh (al-Tur) residente a Gerusalemme Est – credo che i palestinesi abbiano sentito sempre di più la discriminazione alla quale sono soggetti dentro Israele e abbiano visto che anche i bisogni più elementari a noi non sono garantiti».