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5 agosto, 2025Dopo due anni di ostruzionismo, le indagini sull'esplosione nel porto del 4 agosto 2020 che uccise più di 200 persone hanno ripreso il loro corso soltanto da pochi mesi
Come rintocchi i nomi delle vittime risuonano dal palco installato lungo l’autostrada. Sullo sfondo quello che rimane dei silos del porto di Beirut dopo il 4 agosto 2020. È il ricordo dell’esplosione che cinque anni fa devastò parte della capitale libanese, uccise più di 200 persone, circa 7 mila furono ferite e in 300 mila rimasero senza casa.
Il porto occupa quasi tutto un lato del triangolo che costituisce la penisola della capitale libanese. È al centro della città, non lontano dalla piazza principale - Piazza dei Martiri, chiamata così in memoria delle esecuzioni di intellettuali libanesi avvenute per mano ottomana durante la Prima Guerra Mondiale, nel 1916.
Martedì 4 agosto 2020 Beirut era immersa nella calura umida, come oggi. Il nitrato di ammonio immagazzinato illegalmente nell’hangar numero 12 del porto causò due esplosioni ravvicinate: una prima minore, seguita dalla seconda considerata tra le più potenti esplosioni non nucleari della storia.
Nonostante la pericolosità, le 2.750 tonnellate di composto chimico utilizzato anche come fertilizzante erano stoccate al porto dal 2013, a poche centinaia di metri dal centro della città con la complicità di vertici istituzionali e addetti alla sicurezza che oggi si rimpallano le responsabilità.
Tra il porto e la vita brulicante delle vie della capitale libanese c’è l’autostrada che conduce a nord, poi i quartieri che si affacciano sul mare: Karantina, Mar Mikhael e Gemmayze, Geitawi, Badawi, salendo fino ad Achrafieh.
“Qui si camminava su montagne di vetri, era come calpestare neve ghiacciata”, dice Karim Hmede in Rue Pasteur nel quartiere Gemmayze affacciato sull’autostrada e sui silos del porto. “Le persone in strada cercavano di rimuovere pezzi di vetro dai loro corpi. C’era sangue ovunque e gli ospedali furono immediatamente sopraffatti”, continua.
La distruzione causata dall’esplosione ha interessato un’area di circa 10 km, comprendendo più di 70 mila appartamenti e provocando un’onda d’urto equivalente ad un terremoto di magnitudo di 3.4. “Mio cugino era un vigile del fuoco. Insieme ad altri colleghi fu tra i primi ad intervenire. Ci sono voluti giorni per ritrovare i loro resti”, racconta Roland mentre mostra il volto del cugino tatuato sul braccio durante la marcia commemorativa.
A cinque anni dall’esplosione le famiglie delle vittime, i feriti e generazioni intere di persone traumatizzate dalla tragedia attendono ancora giustizia. Solo qualche giorno fa la giornata è stata dichiarata lutto nazionale, una via è stata intitolata alle vittime del 4 agosto 2020 e il sito dell’esplosione è stato inserito tra i luoghi di valore storico, una richiesta a lungo avanza dalle famiglie delle vittime a memoria della tragedia.
Corruzione e divisioni politiche e settarie non hanno infatti risparmiato le indagini che soltanto da pochi mesi hanno ripreso il loro corso sotto la guida del giudice Tarek Bitar. Dopo due anni di impedimenti, ostruzionismo, ricorsi legali e il rilascio dei sospettati, da gennaio il giudice ha potuto riprendere ad interrogare alcuni alti funzionari politici e responsabili della sicurezza implicati nel caso: soltanto dopo una guerra, il ridimensionamento del partito politico e gruppo armato Hezbollah e l’insediamento del nuovo governo che si ripromette di rappresentare un nuovo corso per il Libano.
Per la prima volta la ricerca della giustizia potrebbe avere la meglio su chi ha cercato di ostacolare le indagini. “Il nuovo governo ha dato dei segnali: abbiamo un nuovo presidente e membri del governo sono in mezzo a noi: questa è una novità. La speranza è di essere qui il prossimo anno in maniera diversa”, conclude Roland.
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