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7 agosto, 2025A 50 anni dagli accordi di Helsinki uno dei testimoni dell’atto finale rievoca l’intesa. Moro disse: “La consapevolezza delle ragioni dell’unità ha aperto la via alla distensione”
»Quel giorno a Helsinki brillava il sole, c’erano 30 gradi e l’atmosfera di una svolta storica». Cinquant’anni fa, il primo agosto 1975. Nella capitale della Finlandia c’è anche un giovane borsista, laureando in Giurisprudenza: si chiama Gianfranco Nitti e studia all’Università di Bari, la stessa dove ha insegnato Aldo Moro, professore e all’epoca segretario della Democrazia cristiana e presidente del Consiglio italiano. Il giovane sta preparando una tesi sulla “composizione pacifica delle controversie internazionali”, nello specifico su una proposta avanzata dalla Svizzera durante la Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa, in corso in quei giorni a Helsinki.
Nell’auditorium di “Casa Finlandia”, capolavoro di Alvar Aalto rivestito in granito nero e marmo di Carrara, sfilano le delegazioni di tutti i Paesi europei (con la sola eccezione dell’Albania) e i protagonisti di un’epoca politica: dal francese Valéry Giscard d’Estaing a Moro, dall’americano Gerald Ford al sovietico Leonid Brežnev, dal tedesco Helmut Schmidt al cardinale Achille Silvestrini, interprete vaticano della “Ostpolitik”, l’apertura verso Est. Capi di Stato e di governo, da una parte e dall’altra del Muro di Berlino, membri della Nato o del Patto di Varsavia, firmano l’Atto finale: un documento in dieci punti che promette una tregua nella Guerra fredda ponendo le basi per un dialogo su temi cruciali, per la risoluzione pacifica dei conflitti, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la cooperazione tra gli Stati, l’inviolabilità delle frontiere e l’autodeterminazione dei popoli.
«Helsinki fu la premessa per le riforme di Mikhail Gorbaciov e un’anticipazione della caduta del Muro di Berlino», ricorda ancora Nitti, che quel primo agosto riuscì ad assistere alla firma accreditandosi come giornalista e che poi in Finlandia è rimasto e ha messo su famiglia. Al telefono oggi risponde a L’Espresso da un villaggio della Lapponia a soli 40 chilometri dal confine con la Russia. «La Finlandia è entrata nella Nato e la frontiera è chiusa», sussurra, come dissimulando amarezza. «Un segno dei tempi».
Cinquant’anni fa era un altro mondo. L’Ucraina, che ora è sotto le bombe della Russia di Vladimir Putin, era parte dell’Unione Sovietica. E invece di scegliere il riarmo, come fanno adesso contro Mosca, i Paesi dell’Europa occidentale puntavano sul dialogo: sull’ascolto invece che sui muri, pur riconoscendo le proprie radici e la propria storia. A Helsinki, Moro scandisce: «Ci unisce un intento di pace al riparo di ogni minaccia alla sicurezza. Ci unisce il bisogno e il desiderio di cooperazione. La consapevolezza di queste ragioni di unità ha aperto la via alla distensione». Secondo il presidente del Consiglio italiano, la Conferenza europea è «convocazione multilaterale e paritaria per un’elaborazione comune, senza distinzione nell’apporto dei singoli Paesi, che tutti, dai maggiori ai minori, hanno fatto udire la loro voce».
Cinque anni più tardi, papa Giovanni Paolo II propone la metafora dei due polmoni necessari perché i cattolici possano respirare: quello occidentale e quello orientale. Nella sua Polonia e altrove all’Est è il tempo della dissidenza. E da Helsinki è nata l’Organizzazione per la cooperazione e la sicurezza in Europa, che sulla carta esiste ancora oggi, ha base a Vienna e con 57 Stati membri è estesa da Vancouver a Vladivostok.
Ma cosa resta di quell’impegno a cercare una piattaforma comune? A L’Espresso risponde Pietro Sebastiani, diplomatico ed esperto di cooperazione, già ambasciatore d’Italia in Spagna e presso la Santa Sede. «C’è la necessità urgente di rilanciare lo spirito di Helsinki», sottolinea. «Lo stesso Vaticano, che fu presente alla Conferenza come Stato a pieno titolo ed ebbe un ruolo cruciale, può dare ora un contributo preziosissimo, sempre impegnato a promuovere la concezione della pace come valore morale prima ancora che come questione politica». La “Ostpolitik” è anche tentativo di comprendere i timori e le ragioni dell’altro. «Nella tradizione russa l’Occidente è sempre stato visto con una sensibilità particolare, che non sempre a Ovest è stata percepita o capita», continua Sebastiani. «Nella storia recente, da Napoleone a Hitler, Mosca ha subito più aggressioni dall’Europa che da altrove».
E poi però c’è il mondo, più grande. L’ambasciatore parla di «un ridimensionamento dell’Occidente», con una serie di fenomeni interconnessi: l’impoverimento della classe media e il trasferimento di risorse da un continente all’altro, l’ascesa di forze “populiste” e il restringersi dell’orizzonte temporale della politica, sempre meno capace di alzare lo sguardo. «Il sistema internazionale è invecchiato e ha bisogno di una nuova colonna vertebrale e architettura complessiva», prevede Sebastiani. «In questo processo ci sarà allora sicuramente spazio per una nuova Helsinki, anche se non sarà facile: bisogna farsi trovare pronti e preparare il terreno, ma oggi non vedo questa riflessione e ciò mi preoccupa».
Di Est e Ovest parla anche padre Germano Marani, gesuita, animatore del Pontificium Collegium Russicum, istituto di formazione che dal 1929 approfondisce i rapporti con le Chiese orientali. «La diplomazia, se è autentica, è una forma di carità», sottolinea il religioso. «È attenzione all’altro, tentativo di capire che cosa vuole dire, senza cercare di sopraffarlo». E oggi che ne è dello “spirito di Helsinki”? «Si sta perdendo e questo mi dispiace moltissimo – risponde padre Marani – Ma dobbiamo assolutamente tentare qualcosa».
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