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11 settembre, 2025Trump ha usato in campagna elettorale il dossier sul finanziere accusato di reati sessuali. Ma ora che si vocifera di un suo coinvolgimento, cerca di spostare l’attenzione
Dopo la pausa estiva, il Congresso è tornato dalle vacanze, ma sui banchi ha ritrovato lo stesso fascicolo con cui aveva chiuso la sessione: il caso Jeffrey Epstein. Un dossier che non si è concesso nemmeno un giorno di ferie. Da mesi intossica l’agenda politica, oscura ogni altro provvedimento e logora i nervi del presidente. Il sospetto è che Donald Trump sia coinvolto nello scandalo e abbia avuto relazioni compromettenti. «Una bufala dei democratici», va ripetendo il tycoon.
Lo speaker Mike Johnson aveva persino anticipato di un giorno lo stop dei lavori, illudendosi di soffocare l’interesse. Obiettivo mancato. Ad agosto il plico non solo non si era sgonfiato, ma risultava addirittura ingrossato. Appena rientrati a Capitol Hill, i parlamentari sono stati travolti da un’ondata di iniziative. In prima fila la coppia bipartisan dei deputati Thomas Massie, repubblicano del Kentucky, e Ro Khanna, democratico della California, che spinge per un provvedimento che obblighi il ministero della Giustizia a rendere pubblici i file sul finanziere morto suicida in cella nel 2019, dopo l’arresto per traffico di minori e abusi. Una petizione, osteggiata dalla Casa Bianca, che necessita di 218 firme per arrivare in Aula. Nel mirino ci sono documenti che potrebbero scoperchiare una rete di nomi eccellenti.
Nel frattempo i repubblicani hanno autorizzato un’indagine della Commissione di Vigilanza della Camera, che ha diffuso oltre trentamila pagine con documenti del tribunale, registri di volo e un video. Quasi tutto materiale già noto. «I need a big thing», avrebbe confidato Trump ai suoi, secondo le indiscrezioni rivelate da Michael Wolff, il biografo più scomodo del presidente. «Una cosa grossa», persino come il ritiro degli Stati Uniti da qualsiasi coinvolgimento nel conflitto Russo-Ucraino, pur di cambiare l’agenda. Scenario fantasioso, che però delinea lo sforzo di liberarsi di questa grana.
L’affaire Epstein sta diventando il vero tallone d’Achille di questa amministrazione e il presidente potrebbe finire per incrinare il legame mistico con la sua base. Se prima delle elezioni del 2024 Trump brandiva in ogni comizio la clava della presunta “lista clienti”, oggi la scena è ribaltata. La vulgata ufficiale ribadisce che non esiste alcun elenco segreto, giustificando la scelta di non rendere pubblica parte delle carte con la necessità di proteggere l’identità di decine di vittime. Il popolo Maga considera il caso, invece, la prova provata del marcio delle élite progressiste. Un passepartoutcapace di smascherare la corruzione del “sistema” e del deep state. La storia si presta a teorie più o meno complottiste: dai Clinton accusati di aver fatto uccidere Epstein per insabbiare la verità, ai video di sorveglianza nella cella manipolati, fino all’ipotesi che il miliardario fosse un agente del Mossad. A chiedere chiarezza ci sono figure di peso.
«Non si può pretendere che la gente abbia fiducia in Trump se non pubblica i file Epstein», aveva sentenziato Elon Musk nella faida post Doge, insinuando su X che il nome del presidente comparisse nel dossier. La controversa influencer Laura Loomer ha messo in guardia il tycoon dal pericolo di erodere le fondamenta della sua leadership. Ma c’è persino Michael Flynn, ex consigliere per la sicurezza nazionale e sostenitore delle teorie QAnon; e Joe Rogan, il podcaster più ascoltato d’America. Nel mirino finiscono Kash Patel e Dan Bongino: oggi ai vertici dell’Fbi, ieri scettici sul “suicidio” del finanziere. E Pam Bondi, la ministra della giustizia che aveva lasciato intravedere rivelazioni esplosive salvo spegnere tutto con un gelido memo.
A difendere le vittime di Jeffrey Epstein c’è anche la più improbabile delle amazzoni: Marjorie Taylor Greene, deputata della Georgia e lady di ferro del movimento Maga che si è impegnata a leggere in Congresso la lista che le donne hanno intenzione di compilare autonomamente. Le grandi accusatrici implorano il presidente di non cedere all’ipotesi di grazia per Ghislaine Maxwell: la fidanzata-complice oggi sta scontando 20 anni, ma scalpita per un accordo con la Casa Bianca.
In prima linea ci sono Anouska De Georgiou, che ha subìto abusi da adolescente come Marina Lacerda, a 14 anni. E Chauntae Davies che ha denunciato il “lasciapassare” garantito al finanziere dai suoi rapporti con persone influenti. Tra queste ha incluso Trump. A mancare è la voce di Virginia Giuffre, vittima simbolo del caso, suicida lo scorso aprile. Reclutata da ragazzina mentre lavorava al club di Mar-a-Lago, ha raccontato di essere stata costretta a prestare servizi sessuali a uomini importanti, tra cui il principe Andrea d’Inghilterra. Di potenti Jeffrey Epstein ne ha conosciuti tanti: tra i più illustri Bill Gates e Bill Clinton. D’altronde, negli anni Novanta frequenta i salotti buoni di New York, come quello di Leslie Wexner, patron di Victoria’s Secret. Amicizia che attira nella sua orbita molte aspiranti modelle. L’aura si incrina con l’arresto in Florida nel 2006: le indagini fanno emergere decine di vittime minorenni e una rete di prostituzione e pedofilia. Nel 2008, con un patteggiamento passato alla storia come “deal of a lifetime”, si dichiara colpevole di capi d’accusa statali, scontando appena 13 mesi in carcere ed evitando accuse federali che potevano costargli decenni. Figura chiave è Maxwell, poi arrestata, che recluta le ragazze “per i clienti” con il pretesto di farle diventare massaggiatrici, facendole volare tra le mansion di New York e Palm Beach fino all’isola privata nelle Virgin. Nel 2019 Epstein è di nuovo incarcerato a New York, dove si toglierà la vita.
Trump ed Epstein diventano amici frequentando gli stessi ambienti (Hunter Biden, facendo infuriare la first lady, ha persino ipotizzato che Jeffrey presentò Melania a Donald). I rapporti si interrompono nei primi anni Duemila. Finora il presidente non è mai stato incriminato e ha bollato come false le rivelazioni del Wall Street Journal secondo cui a maggio la ministra della Giustizia l'avrebbe avvertito della presenza del suo nome nei fascicoli. Ha poi citato in giudizio per diffamazione il quotidiano per l’articolo su un biglietto di auguri del 2003 per i cinquant’anni “dell’amico” alludente a “un meraviglioso segreto”, negando di essere l'autore. La lettera, con lo schizzo di una silhouette femminile e la firma posizionata strategicamente all’altezza del pube, è stata poi diffusa dai democratici della Commissione di Vigilanza della Camera.
«Trump ha preso di mira Epstein in campagna elettorale. E la mossa sembrava azzeccata», spiega Sarah Chayes, esperta di corruzione sistemica. «C’erano gli intrecci accademici, con il finanziere che amava atteggiarsi a intellettuale donando ingenti somme a università d’élite come Harvard e Mit, considerate roccheforti liberali; c’era Bill Clinton, già associato al “Pizzagate” e alle accuse di pedofilia. Ha cavalcato il caso dipingendo Epstein come un mostro liberal».
L’autrice di “On Corruption in America: And What Is at Stake” avverte: «Trump stesso era ed è intrecciato a Epstein. Non so cosa gli sia passato per la testa quando ha promesso di rendere pubblici quei documenti. Pensava di non vincere e quindi di non dover mantenere l’impegno? Credo che il dietrofront dipenda dal fatto che quelle carte, se divulgate, lo metterebbero in cattiva luce». Per i repubblicani la vicenda resta una patata bollente. Secondo un sondaggio dell’Università del Massachusetts, il 47 per cento degli elettori che ha votato per il repubblicano disapprova la gestione del caso. Ma il presidente ha costruito la sua fortuna politica sulla capacità di trasformare ogni crisi in un’opportunità: da dieci anni si nutre dello scontro. Cancellando lo scandalo di ieri con la provocazione di domani.

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