Mondo
18 settembre, 2025L’ex isola degli schiavi è prigioniera di una crisi irreversibile. Nei primi sei mesi del 2025, 3.141 persone sono state uccise e altre 350 sequestrate a scopo di riscatto
Picchia forte il sole nel primissimo pomeriggio di domenica 3 agosto. La luce diventa abbagliante quando si riflette sul muro di cinta bianco dell’orfanotrofio di Kenscoff, 4 chilometri a sud di Port-au-Prince. Il centro si chiama Nos Petits Frères et Soeurs, struttura parareligiosa che accoglie trecento bambini abbandonati senza più genitori perché uccisi o morti di malattie. È un giorno festivo, giorno di visite. I controlli all’ingresso sono allentati. Gena Heraty, la direttrice, una vera pioniera dell’impegno umanitario, una laica irlandese da 30 anni presente sull’isola, distribuisce sorrisi e strette di mano ai pochi visitatori giunti a fatica, tra mille peripezie e rischi, per salutare i ragazzini felici di correre e gridare nel grande cortile interno.
Un boato e un sussulto. Una carica di dinamite ha aperto uno squarcio sul muro da dove entrano, fucili automatici e passamontagna, una decina di miliziani. Sparano qualche raffica per aria ma non c’è bisogno di minacciare. Il gruppo sa bene come agire; non è contrastato, porta a termine il piano, semplice e studiato con cura. Afferrano Madame Gena, come è conosciuta la donna, la costringono a salire su un’auto; altri sette dipendenti dell’orfanotrofio sono legati e caricati su due gipponi. Prendono anche un bambino. Ha solo 3 anni. Sgommano e partono verso il nulla. L’assalto e il rapimento fanno rumore. Non è certo una novità per Haiti dove nei primi sei mesi del 2025, secondo l’Unhcr, 3.141 persone sono rimaste assassinate e altre 350 sono state vittime di sequestri a scopo di riscatto. Chi può paga, gli altri spariscono. Non c’è una richiesta chiara ma si sa che le gang vogliono soldi. La direttrice è una straniera, qualcuno pagherà. È stata rilasciata, insieme agli altri prigionieri, lo scorso 26 agosto.
Il mondo si è dimenticato di Haiti. L’ha cancellata, con un colpo di spugna. Come si fa con le cose brutte che non vogliamo vedere. C’è già tanta sofferenza in giro, tra Gaza e Ucraina, per non parlare del Sud Sudan, dell’eterno dramma del Darfur, delle decine di grandi e piccoli conflitti tra Africa e Asia. L’ex isola degli schiavi resta prigioniera della sua crisi irreversibile, preda della criminalità, che tra apatia, corruzione e lotta di potere, l’ha conquistata ormai al 90 per cento. Solo poche sacche all’interno della capitale resistono all’assedio delle gang fameliche che si fanno pagare tutto. Anche il diritto di vivere. Haiti è un inferno, pensa rassegnato il mondo, e allora che bruci con i suoi sogni di riscatto mai realizzati.
I soldati e poliziotti spediti dal Kenya, l’unico Paese che ha raccolto l’appello disperato dell’Onu per la formazione di una forza multinazionale di supporto alla sicurezza, fanno lo stretto necessario. Impediscono la presa totale dell’isola. Sorreggono un governo provvisorio, con il suo presidente provvisorio, indicato da un parlamento provvisorio, prima che soccomba definitivamente. Haiti deve sopravvivere perché ha un suo valore strategico, geopolitico, non certo economico, visto che si trova a due passi dalle coste Usa e in mezzo ai Caraibi. Ma non è più avvolta da un’emergenza umanitaria. La sua è una resistenza. Anzi: una resilienza. Sopravvive per non sparire.
Le truppe keniote restano arroccate nel loro quartier generale vicino all’aeroporto e svolgono pattugliamenti assieme a quel che resta della polizia locale. Ma la missione appare già fallita. Scade il prossimo 2 ottobre. Non si sa se verrà rinnovata. L’impegno di Nairobi era di 2.500 uomini, in realtà sono operativi solo in 991 e sono tutti poliziotti. C’è un problema economico più che politico: l’amministrazione Trump ha tagliato i contributi all’Onu e a tutte le agenzie collegate.
Il 15 agosto scorso si è affacciata sull’isola una figura nota nei teatri di guerra: l’ex Navy Seals Erik Dean Prince, fondatore della Blackwater, la società militare privata al centro di molte proteste e scandali soprattutto dopo la strage di piazza Mansour a Bagdad, nel settembre del 2017. Adesso è stata sostituita dalla Vectus Global. Ha cambiato nome. Si è impegnata con 200 uomini ad aiutare le autorità traballanti di Haiti a contenere le violenze delle gang. Il suo intervento pone dei problemi di legittimità internazionale visto che si tratta di un’iniziativa di un gruppo privato a favore di un governo sovrano che sopravvive sotto l’ombrello Onu. Il rischio, inoltre, è l’aumento delle violenze senza una valida soluzione futura per gli 11,2 milioni di dannati che sopravvivono tra assalti e proiettili. La Global si è detta disposta a fornire “consigli” alla presidenza. La storia di ripete.
«La realtà è peggiorata», conferma via telefono a L’Espresso Jean Marc Biquet, capo missione di Medici senza frontiere. «L’arrivo delle forze keniote non ha cambiato molto. Nel marzo scorso siamo stati costretti a chiudere anche il terzo ospedale che abbiamo sull’isola. Per muoverci dobbiamo raccogliere tutte le informazioni sulla sicurezza nelle strade, anche tra gli emissari delle gang. Sono loro che ci autorizzano a circolare. L’ultima volta uno dei nostri mezzi, con tanto di insegne e bandiere, è stato centrato da una serie di proiettili sparati dalle forze di polizia». La gente, ricorda il capo missione, continua comunque ad affollare le piccole strutture sanitarie ancora funzionanti. Non ha alternative. La sanità pubblica è al collasso. «Il 70-80 per cento dei ricoveri è per ferite da armi da fuoco», precisa Biquet. «Questo dato spiega da solo cosa accade in giro per Haiti». Ci sono poi le infezioni, la denutrizione, la fame. Oltre alle violenze sessuali, gli stupri ai danni dei bambini che vengono poi arruolati e pagati con cibo e acqua.
Il vero potere adesso è nelle mani di 300 bande. La maggioranza dei miliziani è formata da ragazzini. La storia di Haiti è una storia di violenze, di orgoglio e di magie ancestrali. Le bande hanno sempre fatto parte del suo tessuto sociale ed economico. Ma saranno le milizie dei “Volontaires de la Sécurité Nationale”, le note “Tonton Macoutes”, a legalizzarle. Furono create dall’allora presidente-dittatore François Duvalier (1959) come forza paramilitare per sopprimere il dissenso. Si calcola che i Macoutes abbiano ucciso oltre 60mila haitiani. Erano talmente protetti dalla loro aura parareligiosa, e dagli apparati dello Stato, da essere soprannominati dalla gente “bandits legals”, in creolo. Sciolti d’autorità una volta finito il dominio della dinastia dei Duvalier (padre e figlio), i Tonton si misero al servizio delle famiglie potenti dell’isola. Sono dirette da ex ufficiali di polizia. Hanno saltato il fosso e guadagnano una montagna di quattrini. Gestiscono il commercio. Hanno un peso politico nelle scelte di governo. Sono uno Stato parallelo.
Il resto è storia recente. Presidenti dimissionati o cacciati con la forza, governi che si sono alternati senza trovare il giusto equilibrio tra i gruppi di influenza e le ricche famiglie di commercianti. Fino all’omicidio del presidente Jovenel Moïse, il 7 luglio del 2021, ucciso da un gruppo di mercenari.
Per la sua posizione geografica, Haiti è sempre stata un hub del commercio illegale internazionale. Prima per stoccare le partite di coca dalla Colombia e dal Venezuela, poi le casse di armi che hanno preso il sopravvento sul mercato dominato dalle guerre. «La nostra organizzazione», aggiunge Jean Marc Biquet, «continuerà a lavorare qui. Ma dobbiamo arrangiarci. Pochi fondi e solo privati, il personale ridotto all’osso. Abbiamo bisogno di medici e infermieri. Sono tutti fuggiti, trovare dei volontari è impossibile». Haiti muore lentamente, tradita dal mondo che l’ha sacrificata.
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