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4 settembre, 2025Quattro primi ministri bruciati in pochi mesi, riforme lacrime e sangue da approvare, gradimento ai minimi termini. E lo spettro di una nuova contestazione che fermerà tutto
Se non fosse stato chiaro al presidente Emmanuel Macron poco più di un anno fa, quando prese l’avventata decisione di sciogliere l’Assemblea nazionale, certamente è diventato cristallino adesso che sta per perdere il suo quarto primo ministro in un anno e mezzo: non bastano più le minacce dell’apocalisse e l’appello al senso del dovere per salvare la Francia dal caos politico, economico e sociale in cui l’hanno sprofondata otto anni di politiche liberiste fuori tempo massimo. Hanno creato profonde fratture sociali che oggi impediscono al cittadino medio di accettare la richiesta governativa di qualsiasi (pur necessaria) riforma che comporti un sacrificio economico, senza scatenarne la rabbia, le proteste e la violenza.
Per questo le chance che François Bayrou sopravviva al voto di fiducia che chiederà l’8 settembre sono praticamente nulle: i grandi blocchi in cui si è frammentata l’assemblea parlamentare dopo il voto nazionale voluto da Macron nel luglio 2024 si sono detti contrari. Sia i socialisti di Olivier Faure e la France Insoumise di Jean-Luc Mélenchon che il Rassemblement National di Marine Le Pen hanno messo i tappi nelle orecchie per non sentire nemmeno le lusinghe dell’attuale primo ministro e le sue aperture sulla contestata legge di bilancio. Non aspettando altro che l’uscita di scena del presidente francese prima del 2027, sperano che la situazione di ingovernabilità che si riaffaccia lo convinca a dimettersi.
«La crisi che attraversa il Paese non è nata come crisi di bilancio o crisi finanziaria», aveva detto Olivier Faure, segretario del partito socialista, durante la riunione estiva del suo partito: «È nata da uno Stato che governa solo contro il suo popolo e non con il suo popolo».
Alle prese con un debito pubblico passato dal 98 per cento del Pil nel 2012 al 114 per cento previsto per la fine di quest’anno, spinto da un deficit costantemente fuori dai parametri europei (attualmente al 5,8 per cento), Bayrou ha presentato al Parlamento una legge di bilancio da 44 miliardi di euro che include l’eliminazione di due festività nazionali care ai francesi (il lunedì di Pasqua e l’8 maggio, l’equivalente del nostro 25 aprile), ampi tagli alla spesa sanitaria, il congelamento degli aumenti pensionistici, l’eliminazione di varie agevolazioni fiscali e il blocco degli investimenti verdi. Per facilitarne l’approvazione in un Parlamento senza maggioranza governativa, a fine agosto ha annunciato di volere porre la fiducia.
La reazione è stata più violenta del previsto, in linea con quella all’azzardo macroniano dell’anno scorso. Un nuovo movimento civico, a distanza di sette anni dai gilet gialli, che spopola sui social media al grido di «Blocchiamo tutto», ha annunciato un’attività di sabotaggio del sistema per il 10 settembre: pochi sanno cosa aspettarsi ma in moltissimi, soprattutto di estrema sinistra – il 70 per cento degli aderenti vota per Mélenchon e il 10 per cento segue Philippe Poutou, leader del Nuovo partito anti capitalista – si sono detti entusiasti. Per non restare indietro anche i sindacati, tutti insieme, si sono mobilitati a fine agosto per annunciare uno sciopero generale il 18 settembre. Contro la legge di bilancio ma anche contro il rifiuto da parte di Macron di nominare un primo ministro rappresentante di quella sinistra che l’anno scorso aveva vinto le legislative, sconfessando la sua politica economica. I socialisti propongono oggi un budget di soli 23 miliardi, divisi tra spese e incassi che elimini la soppressione dei festivi e i tagli alla sanità di Bayrou e imponga invece una tassa del 2 per cento sui grandi patrimoni, proposta (a livello globale) dall’economista Gabriel Zucman.
Macron ha gettato le basi dell’attuale malessere quando, subito dopo essere stato eletto per la prima volta nel 2017, ha introdotto drastici tagli fiscali a beneficio esclusivo dei più abbienti. Ha eliminato la tassa sui patrimoni di oltre 1,3 milioni di euro sostituendola con una tassa del 30 per cento su dividendi e interessi, di fatto riducendo le tasse sugli utili da investimenti finanziari del 70 per cento; ha ridotto dal 33 al 25 per cento le tasse d’impresa; ha ridotto le contribuzioni sociali ai datori di lavoro; ha reso più facili i licenziamenti e ridotto gli indennizzi. Si trattava di misure che nelle intenzioni avrebbero dovuto stimolare la creazione di nuove imprese e nuovo impiego, e difatti il tasso di disoccupazione è sceso al 7 per cento. Ma che, complici eventi imprevedibili, hanno finito per causare la perdita di 62 miliardi di euro di gettito fiscale annuo, pari al 2,2 per cento di Pil e che, secondo France Strategie, un think tank creato dall’ex presidente socialista François Hollande, hanno portato benefici soprattutto alle 3.800 famiglie più ricche di Francia.
È stata proprio la percezione di ingiustizia manifesta nella distribuzione dei sacrifici e dei benefici a scatenare nel 2018 le rivolte dei Gilet gialli: l’aumento delle tasse sui carburanti e il pur necessario innalzamento dell’età pensionistica da 62 a 64 anni furono la goccia che fece traboccare il vaso del malcontento popolare.
Per placarlo Macron dovette sborsare 17 miliardi di euro in misure compensative. Fu solo l’inizio dello scivolone fiscale. Subito dopo arrivò il Covid con il suo gravame di 418 miliardi di euro sulle finanze pubbliche, la necessaria ma costosa transizione verde e digitale e poi l’invasione russa dell’Ucraina, che è costata 26 miliardi solo in sussidi energetici. Il debito francese è passato da 2,2 mila miliardi a 3,3 miliardi di euro. Macron si è sempre rifiutato di alzare le tasse abbassate in precedenza e di alleggerire il welfare (65 per cento della spesa pubblica) per non compromettere ulteriormente il suo flebile consenso. Ma nel frattempo le circostanze esterne sono peggiorate: il cambiamento di politica americana ha costretto l’Europa al riarmo e la Francia, tra i leader dei Volenterosi, ha investito 47 miliardi di euro in spese militari già nel 2024, circa il 13 per cento del budget, un ammontare che dovrebbe salire a 55 miliardi nel 2026.
Così debito e deficit sono esplosi in un Paese che non è abituato alla disciplina fiscale ed è invece incollerito contro un leader che aveva promesso benessere e sta consegnando austerità. Il risultato? Il 74 per cento della popolazione, a stare ai dati dell’Osservatorio dell’Esagono, ha un’opinione negativa del suo operato. Ed esige un cambiamento a qualsiasi prezzo. «Si guida un popolo solo mostrandogli un avvenire», diceva Napoleone. Macron, che pure al generale è stato più volte paragonato, non lo ha ascoltato.
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