Mondo
9 settembre, 2025Il conflitto con la Russia ha accelerato la ridefinizione degli equilibri tra le potenze. E ora che il gioco di intelligence e diplomazia si è esteso, le richieste di Kiev rischiano di sparire dal tavolo
Nel XIX secolo alla guerra sotterranea tra Russia e Gran Bretagna per il controllo del Medioriente e dell’Asia centrale venne dato il nome di “Grande gioco”. I due imperi si contendevano l’influenza su una vasta area di mondo a colpi di operazioni segrete, diplomazia e corruzione, appoggiando ognuno il suo alleato locale e spingendolo a espandersi. Negli anni Duemila la locuzione è tornata di moda per designare lo scontro tra Mosca e Washington nella stessa regione dopo le guerre in Afghanistan e Iraq. Con l’invasione dell’Ucraina, tuttavia, il “gioco” è diventato ancora più grande, abbandonando la caratterizzazione territoriale. A partire dalla soluzione del conflitto in Europa dell’Est e dagli schieramenti con o contro la Russia, si stanno gettando le basi per la ridefinizione di molti degli equilibri internazionali.
Il volto sorridente di Vladimir Putin a Tianjin, in Cina, durante il vertice dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (Sco), le foto mano nella mano con il primo ministro indiano Narendra Modi, la corrispondenza d’amorosi sensi con il presidente turco Recep Erdogan e le spiegazioni orgogliose del cinese Xi Jinping alla parata per le commemorazioni degli 80 anni della vittoria sul Giappone sono un monito alla parte di mondo che tra fine agosto e inizio settembre non era invitata nella terra del Dragone. Vogliono dire che stavolta l’attacco all’egemonia statunitense è lanciato sul serio e che, anche se non è ancora effettivo, le intenzioni ci sono tutte. E parte dalla corte di Xi Jinping. La dichiarazione finale del vertice, firmata da tutti i presenti, è un duro j’accuse agli Stati Uniti (senza mai nominarli): «I Paesi dell'Organizzazione sostengono il rispetto del diritto dei popoli di scegliere in modo indipendente e democratico i propri percorsi di sviluppo politico e socio-economico», sottolineando che «i principi di rispetto reciproco per la sovranità, l’indipendenza, l’integrità territoriale, l’uguaglianza, il mutuo vantaggio, la non ingerenza negli affari interni e la non minaccia o uso della forza sono la base di uno sviluppo sostenibile delle relazioni internazionali».
Putin ha firmato, serio e deciso, come se quei rimandi all’integrità territoriale degli Stati e alla non ingerenza, al rispetto dei popoli non contrastasse neanche lontanamente con quanto accade in Ucraina da tre anni e mezzo. Ma il punto è proprio questo, per quanto all’opinione pubblica occidentale possa sembrare anti-storico o addirittura folle. Il messaggio del Cremlino è chiaro: Crimea, Donbass e le altre regioni parzialmente occupate sono già territorio russo, nel quale Putin ha avviato un’operazione di polizia. Nasce da questo, è bene ricordarlo, la locuzione Operazione militare speciale. La quale palesa, in modo incontrovertibile, che la narrativa di Putin e dei vertici russi sull’Ucraina non è cambiata in questi lunghi 42 mesi di guerra sanguinosa. Il Cremlino non si sofferma mai troppo sul fatto che si è combattuto nelle trincee come durante la Prima guerra mondiale, che l’assedio di Mariupol, di Severodonetsk o di Bakhmut è durato mesi, che ormai gli attacchi di droni ucraini alle raffinerie russe sono una realtà che provoca danni ingenti all’infrastruttura energetica del Paese. L’importante è la parola.
Sarebbe questione da linguisti, da filosofi o addirittura da teologi analizzare i meccanismi della creazione di verità attraverso il linguaggio, ma ciò che ci interessa in questa sede è la ricaduta pratica di questo modus che è innanzitutto cogitandi e poi operandi. Putin lo ha detto in Alaska, accanto a Donald Trump, lo ha ribadito in Cina e lo sostiene quotidianamente nei numerosi impegni in viaggio per lo sconfinato territorio della Federazione russa: «Bisogna risolvere le cause profonde alla base del conflitto» per arrivare a una soluzione stabile. Quando si sente parlare di denazificazione, neutralità perpetua dell’Ucraina, riduzione dell’esercito, riforma dello Stato in senso federale, ripristino del russo come lingua ufficiale e della chiesa ortodossa di Mosca come libero culto non si dice nulla di diverso. Per il Cremlino, l’Ucraina deve arrendersi perché sono i rapporti di forza a regolare la narrativa degli equilibri geopolitici. Non che in passato fosse diverso, ma dal 1945 in poi eravamo stati abituati a pensare che lo fosse. Che formule come “diritto internazionale” o “rispetto delle istituzioni internazionali” fossero le leggi inscalfibili del mondo.
Se fino all’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca gli schieramenti erano netti, oggi le zone grigie si moltiplicano. Va riconosciuto che il tycoon stesso ha contribuito in modo decisivo a riabilitare la figura internazionale di Putin, blandendolo dalla distanza, equiparando a lui Zelensky (in senso spregiativo per il presidente ucraino), mandando il suo inviato speciale, Steve Witkoff, in missione a Mosca per ben 5 volte negli ultimi mesi e, da ultimo, invitando il presidente russo in Alaska. Questa è stata la vera pietra tombale dell’aspirazione che fu di Biden e persiste ai vertici dell’Unione Europea di «isolare la Russia». Il discorso non può schiacciarsi sulla legittimazione di un autocrate guerrafondaio, non si tratta di dare ragione all’una o all’altra parte (anche se Trump propende ormai abbastanza palesemente per Mosca). È ovvio che se si vuole tentare una mediazione bisogna sporcarsi le mani, cosa che – per esempio – l’Europa non ha mai voluto fare. Ma non era necessario fornire a quello che fino a qualche mese prima era il nemico numero uno di Washington un palco così prestigioso da cui “spiegare” alle telecamere la propria visione della storia. Se è comprensibile che Putin possa farlo a Tianjin, di fronte agli altri Paesi desiderosi di spezzare l’egemonia statunitense sul mondo, non lo è altrettanto in Alaska accanto all’uomo che si vorrebbe privare dello scettro. Le analisi su questo punto si sprecano.
Dai commentatori statunitensi che accusano Trump di mandare all’aria decenni di diplomazia, reo di aver permesso il compattamento dei principali avversari di Washington, a quelli che continuano a sostenere che si tratti della strategia di un grande giocatore che «sa cosa fa». Ma è difficile credere a questa seconda ipotesi se si verificano i fatti. Per esempio, i dazi del 50 per cento all’India per intimare a Nuova Delhi di smettere di comprare petrolio russo hanno avuto come risultato la prima visita di un premier indiano in Cina degli ultimi 7 anni. Dimenticati gli scontri sanguinosi ai confini, così come la rivalità regionale: tutti uniti contro lo zio Sam. Eppure gli Usa avevano investito per 20 anni per tenere l’India lontana da Pechino e ora sembra tutto in fumo.
Il problema, in fin dei conti, è degli europei. Dipendiamo da Washington per la nostra sicurezza e ciò si ripercuote a cascata su ogni aspetto della politica, interna ed estera. L’Ucraina per Bruxelles è diventata una specie di lotta esistenziale. Tenere uniti i 27 contro la Russia, che è indicata come «la principale minaccia nel futuro prossimo», permettere l’indebitamento comune per riarmarsi, arrivare fino a sostenere – come ha fatto Ursula von der Leyen a inizio settembre – che c’è «un piano quasi pronto» per inviare soldati sul terreno, sono un grido disperato di fronte alla storia. Nel momento in cui i rappresentanti del 42,1 per cento della popolazione mondiale si riuniscono in Cina sotto l’egida di Pechino e gli Usa tendono a scagliarsi più contro gli amici che contro i nemici storici, un sistema farraginoso come quello del Vecchio Continente è in grande sofferenza.
L’invasione dell’Ucraina ha avviato questo processo, seppure fino al novembre 2024 sembrava andasse nella direzione della ritrovata unità del “blocco occidentale”. Con la vittoria di Trump è cambiato tutto e ora persino Zelensky e il presidente francese Macron si ritrovano a invocare ultimatum inesistenti contro Putin. Tutti aspettano una mossa del tycoon che, mentre continua la campagna di repressione interna, tratta con Mosca accordi commerciali nell’Artico per le estrazioni di idrocarburi.
Questo processo di lenta ridefinizione degli equilibri è stato catalizzato dalla guerra in Ucraina, intorno alla quale ora si svolge effettivamente un gioco molto grande di intelligence e diplomazia che, tuttavia, spesso parte da Kiev come pretesto e si declina nel particolare interesse dei diversi protagonisti. Si potrebbe obiettare che Putin ha fatto in modo palese ciò che gli Usa facevano per procura o sotto l’ombrello dell’“esportazione della democrazia”. E infatti spesso, quando si solleva la questione dei diritti e del rispetto delle istituzioni internazionali, a Mosca nominano le guerre degli Usa. Ma la differenza è che stavolta non si è trattato di una campagna scontata contro milizie male armate e per niente motivate: gli ucraini si sono imposti come parte attiva del copione e non intendono defilarsi. A meno che, come già successo in passato, gli ex alleati non li obblighino in qualche modo. E più passano i mesi più il rischio cresce.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Nuovo ordine - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 12 settembre, è disponibile in edicola e in app