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9 settembre, 2025Il presidente statunitense schiera la Guardia Nazionale nella capitale con la scusa della criminalità. E si prepara a usarla anche nelle altre metropoli “nemiche”
All’angolo tra la Quattordicesima e U Street, dove nel ’68 divamparono fuoco e proteste dopo l’assassinio di Martin Luther King, in un weekend di fine estate si assiepa un drappello di attivisti, circondati da poliziotti. Bandiere bianche e rosse del Distretto di Columbia, cartelli con lo slogan Free Dc e poster che sbeffeggiano il presidente che ha trasformato la capitale in un presidio militare. È una delle tante piccole manifestazioni di questi giorni: appassionate e ostinate, ma lontane dalle folle che invadevano la città durante il primo mandato di Donald Trump.
A guidare il corteo è Long Live GoGo, il collettivo che prende nome dal ritmo funk inventato dagli afroamericani di Washington a metà degli anni Sessanta. L’orgoglio di una città che ora alza i pugni contro l’ultima umiliazione. L’11 agosto la Casa Bianca ha dichiarato lo stato di emergenza, preso il controllo del dipartimento di polizia e dispiegato la Guardia Nazionale, i riservisti dell'esercito, affiancata da un imponente schieramento di agenzie federali – dalla Dea, dall’Ice (la già presente, temuta e criticata polizia dell’immigrazione) all’Fbi – con la missione di «salvare la capitale dal crimine, dal sangue, dal caos e dal degrado». Ma soprattutto dagli homeless, cinquemila in una città di settecentomila abitanti. Sarebbero state proprio le tende piantate lungo le strade del potere a scatenare l’ira del tycoon. Dove verranno dislocati i senzatetto resta però un mistero.
Trump ha descritto Washington come «peggio di Bogotá e Città del Messico», «capitale mondiale» degli omicidi con 41 vittime ogni 100mila abitanti, usando dati vecchi e giocando sulle discrepanze statistiche. In realtà, dopo il picco del 2023 (39,4), nel 2024 gli omicidi erano già scesi a 27,3, il livello più basso degli ultimi trent’anni. Un traguardo rivendicato dalla sindaca dem Muriel Bowser che, però, temendo la chiusura dei rubinetti federali, ha dovuto ammettere che con i militari in strada i crimini violenti sono già calati del 45 per cento.
La capitale è solo un banco di prova. Sulla mappa della Casa Bianca le puntine sono già su Chicago, New York, Los Angeles, Philadelphia, Oakland e Baltimora: un disegno su scala nazionale che alimenta lo spettro di una deriva autoritaria e suscita dubbi di costituzionalità sull’uso della Guardia Nazionale come forza di polizia interna. Il presidente repubblicano non è però il solo a pensare che Washington avesse realmente bisogno di aiuto. Ad esempio Steven Sund, ex capo della polizia di Capitol Hill durante l’assalto del 6 gennaio e per oltre venticinque anni nelle giubbe blu cittadine, sottolinea a L’Espresso come «il dipartimento di polizia abbia il livello di organico più basso degli ultimi cinquant’anni, con un deficit di circa 900 agenti. C’era bisogno di rinforzi».
Inoltre, anche se non è Bogotà, secondo i dati dell’Fbi Dc è comunque all’undicesimo posto tra le città americane per tasso di omicidi e continua a convivere con sacche di criminalità radicate, soprattutto nelle periferie: a Est del fiume Anacostia, nel quartiere operaio a maggioranza afroamericana, e nel quadrante Nord Est. «Nelle aree più colpite dalla criminalità, i residenti apprezzano la presenza di forze aggiuntive – spiega Sund – Nei quartieri meno colpiti, invece, la questione è politica: capita che anche davanti a un arresto legittimo per rissa o violenza domestica, la gente cominci a urlare contro gli agenti che si tratta di un “arresto di Trump”».
Eppure, secondo un sondaggio del Washington Post, otto abitanti su dieci si dicono contrari alla militarizzazione di una città democratica all’80 per cento e con una popolazione afroamericana pari al 43,3 per cento. Sui social si moltiplicano denunce di abusi, soprattutto contro minoranze e immigrati. «Avete visto l’ultimo video?» chiede Lucia, mentre ci allunga un volantino. Ci rimanda a un reel in cui gli agenti fermano dei ragazzini neri e sudamericani che giocano a basket. «Interrogati senza motivo. Viviamo in un regime fascista che promuove il suprematismo bianco».
Sentimento che riaffiora nelle parole del reverendo afroamericano John Cox, della Vermont Avenue Baptist Church. «Questa amministrazione è abilissima nel creare false narrazioni che distolgono da ciò che conta davvero: sostenere gli studenti, finanziare alloggi, rafforzare l’assistenza sanitaria e investire nel futuro della comunità». Insomma, i fondi dispiegati per le mimetiche – oltre un milione di dollari al giorno – avrebbero potuto finanziare programmi concreti. «Le comunità nere erano già sotto occupazione. La polizia, negli anni, si è resa responsabile di brutalità con l’appoggio del governo progressista», avverte Sean Blackmon, occhiali alla Malcolm X e tessera socialista in tasca.
Intanto le camionette restano piazzate nei luoghi più simbolici, dalla Casa Bianca alla spianata dei monumenti, mentre l’economia locale comincia a subire il colpo: i turisti diminuiscono e i ristoratori penano. Tanti rinunciano a visitare una città presidiata da pattuglie armate. Come quelle che piantonano Union Station. Qui, da quando duemila agenti hanno messo i “boots on the ground”, un gruppo di resistenti ha allestito un accampamento, sotto gli occhi marmorei di Cristoforo Colombo, a cui è dedicato lo spiazzo davanti alla stazione. Tra seminari di democrazia e resistenza, dagli altoparlanti rimbalzano canzoni partigiane e brani del Grande dittatore di Chaplin. «Siamo quasi tutti reduci, abbiamo visto la guerra. Io sono stato in Afghanistan nel 2004 e in Iraq tra il 2006 e il 2007. Non vogliamo i militari nelle strade», dice Matt Gordon, newyorkese con la lunga barba grigia. «La storia insegna che dispiegare l’esercito contro la propria popolazione non porta mai a nulla di buono. Dobbiamo fermare la deriva, unendo più americani possibile attorno al nostro giuramento alla Costituzione». Questa escalation non va normalizzata.
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