Sull'Afghanistan abbiamo una sola certezza: prima o poi gli americani e i loro alleati se ne torneranno a casa. Il problema è che tale convinzione è condivisa da tutti gli afgani, a cominciare dai tagliagole di vario orientamento che se ne spartiscono il territorio

Sull'Afghanistan abbiamo una sola certezza: prima o poi gli americani e i loro alleati se ne torneranno a casa. Il problema è che tale convinzione è condivisa da tutti gli afgani, a cominciare dai tagliagole di vario orientamento che se ne spartiscono il territorio. Sicché tutti, da Karzai in giù (o in su, se guardiamo alle gerarchie effettive e non solo nominali), i signori della droga e della guerra preparano il giorno in cui regoleranno i conti fra loro. All'ombra dei tradizionali 'protettori' esterni, quelli che storia e geografia condannano a occuparsi di Afghanistan: Iran, India e Pakistan anzitutto, ma anche Cina, Russia e Stati dell'Asia centrale post-sovietica.

Su questo sfondo conviene interpretare il deterioramento quasi lineare della crisi afgana negli ultimi quattro-cinque anni. Le elezioni farsa che americani ed europei hanno allestito per creare l'illusione di un governo legittimo cui affidare la responsabilità dell'Afghanistan stanno rivelandosi un boomerang. In ogni caso, a Kabul non si insedierà un presidente credibile. E allora?

Alla Casa Bianca, se potessero, avrebbero già dato il segnale della ritirata. E rischierato le truppe in aree vicine, più sicure e più economiche, da cui proiettarsi in operazioni mirate (antiterrorismo o di altro genere). Ma come mascherare questa ritirata da successo?

In ogni caso, per Obama più che l'Afghanistan conta il Pakistan - di qui la sigla 'Afpak' oggi di moda - con il suo apparato nucleare che rischia di slittare in mani jihadiste. Ma la cruda umiliazione che gli Stati Uniti stanno sperimentando in Afghanistan si riverbera a Islamabad e dintorni, minacciando quel poco di residua statualità ancora visibile in Pakistan.

Negli ultimi mesi, gli strateghi del Pentagono e della Nato hanno guardato con interesse alla Cina come a una possibile risorsa strategica da spendere sul terreno afgano. E i dirigenti cinesi hanno informato gli americani di essere disposti, in linea di principio, a dare una mano nella repressione dei talebani e dei loro sponsor pakistani. In questo l'interesse cinese è regionale e insieme globale.

Per Pechino è fondamentale proteggere la frontiera occidentale a ridosso dell'Afpak e dell'India, dove vivono le minoranze musulmane uigure (Xinjiang) e hui (Tibet), dalle infiltrazioni jihadiste provenienti da Afghanistan e Pakistan. Inoltre, i cinesi che operano in Afpak sono da tempo nel mirino di insorti e terroristi. Specie quelli attivi nel settore minerario, in Afghanistan, e delle infrastrutture, in Pakistan.

Oltre a tale convergenza specifica fra gli interessi americani e quelli cinesi in Afpak, a Pechino si sostiene che la collaborazione in quel teatro strategico servirebbe gli interessi globali della Cina. Sarebbe la prova generale di un'intesa non più solo economica, ma geopolitica e strategica, fra Cina e Stati Uniti. A Obama era stato fatto sapere fin dai primi giorni di presidenza che Pechino sarebbe stata disposta a considerare l'invio di proprie truppe ad affiancare il contingente internazionale a guida Nato (ossia Usa). Stesso concetto espresso al segretario generale della Nato, il danese Rasmussen. Ma la situazione è talmente deteriorata, e l'incertezza strategica americana tanto palese, da avere indotto i leader cinesi a moderare le velleità interventiste. Se l'America non sa che cosa vuole - dicono a Pechino - non può aspettarsi che glielo spieghi la Cina.