Le dichiarazioni del cardinale Tettamanzi sulla costruzione della moschea a Milano potevano offrire l'occasione per un serio confronto sul futuro inevitabilmente multi-etnico e multi-religioso della nostra società. Era facilmente prevedibile che essa andasse sprecata, come infinite altre in passato... E non solo per colpa delle usuali volgarità leghiste. Ad esse non ci si contrappone sdrammatizzando, ma, all'opposto, cercando di far comprendere le epocali novità che dovremo affrontare e scommettendo sulla responsabilità e maturità dei nostri concittadini.
Il problema consiste nel fatto che è impossibile affrontare il "pluralismo" culturale-religioso della società attuale "estrapolando" dall'esperienza che ha caratterizzato la formazione sociale e statuale del Moderno. In certi discorsi, animati da indubbia "buona volontà", sembra quasi non si tratti che di "allargare", di rendere più ampia quella idea di "pluralismo" che dovrebbe esserci ormai famigliare, di rafforzarne le virtù "integratrici". Purtroppo non è così. Nella società moderna secolarizzata si poteva ritenere di essere giunti, pur attraverso le contraddizioni e i conflitti che ne hanno tragicamente segnato la storia, al riconoscimento delle differenze di valori e visioni del mondo, perché queste differenze "abitavano" un tempo comune. Il tempo storico delle ideologie liberali è lo stesso di quelle socialiste. Il tempo storico delle grandi riforme religiose protestanti è lo stesso delle contro-riforme cattoliche. Molto di più, questi decisivi conflitti maturano da esperienze e vissuti comuni, rappresentano sviluppi di origini condivise, potenzialità immanenti in un'unità più profonda, che non viene mai esplicitamente negata.
Il politeismo dell'Occidente moderno si configura come conflitto di valori all'interno di un vissuto storico comune. Ciò vale anche per le "distanze" apparentemente più abissali: la laicità dello stesso Illuminismo neppure sarebbe concepibile se non nella storia dell'Europa o Cristianità. Non si rende mai necessaria, cioè, un'autentica esperienza dell'altro. Così è per la lotta forse più rappresentativa e decisiva del Novecento: tra classe operaia e capitale la "condivisione" del primato dell'Occidente, della Tecnica, del progresso scientifico-tecnologico, è pressoché totale. È questo politeismo, è questo confronto tra valori tutti rappresentanti un tempo comune, che sembra oggi minacciato dalle fondamenta. Questo tempo era quello lungo della secolarizzazione, segnato dalle vicende della forma-Stato occidentale.
Nella società multi-etnica e multi-religiosa che si va oggi formando, storie e tempi si oppongono. Il tempo storico di una famiglia musulmana non è quello dei suoi vicini, credenti o non credenti che siano, educati a una secolare idea di laicità, in quanto distinzione tra religione e politica, fondazione del patto sociale sul fondamento dell'interesse individuale, costruzione dell'orizzonte comune, della polis, a partire dal primato dei cives, nella loro irriducibile, e più o meno "perversa", polimorfità. La conseguenza drammatica di questa situazione è la messa in crisi della figura neutrale-agnostica dello Stato di fronte all'insorgere di conflitti di valore. Lo Stato poteva svolgere la sua funzione "arbitrale" nella misura in cui il politeismo dei valori si rappresentava nello spazio di un pantheon comune, in cui i duellanti in fondo si contendevano la legittimità della sua più efficace rappresentanza e gestione, presupponendo sempre una identità di tempo e storia, se non anche di destino.
Ma ora? I processi di integrazione dovranno assumere una forma del tutto diversa. Nei conflitti precedenti restava fuori discussione la forma-Stato come grande prodotto dello spirito europeo. Oggi lo Stato laico è chiamato a "contenere" in sé valori e visioni del mondo che non appartengono in nulla alla sua storia e al suo linguaggio. E come può allora intervenire "neutralmente" nei confronti di posizioni incompatibili con la sua stessa, essenziale istanza agnostica? Se si schiera esplicitamente nel conflitto di valori, smarrisce la propria radicale laicità. Se si presenta "neutrale" riguardo a tempi vissuti estranei al proprio destino, dimentica la propria stessa identità e corre il rischio di perdere ogni effettuale potenza. Questa è la dimensione "universale" entro cui collocare i problemi di "integrazione". La coscienza della loro complessità può aiutare a affrontarli o, almeno, a "tollerarli". Non saranno progetti a tavolino e ragionevolezze a buon mercato a risolverli. Una giusta modestia sui limiti dell'azione politica è doverosa in casi simili. La corrente della vita, nella sua imprevedibilità, è infinitamente più potente di qualsiasi forma ci possiamo inventare.
Ma questo disincanto non autorizza alcun disimpegno; esso obbliga, anzi, a moltiplicare le occasioni di confronto, di comunicazione.
Ciò che è incompatibile non per questo deve essere anche incomparabile. L'esercizio della comparazione tra storie, tempi, valori che appaiono incompatibili, è per eccellenza proprio l'esercizio della ragione. E potrebbe anche diventare quello della politica, della politica in grande, oggi ovunque assente. Per il momento, potremmo anche accontentarci di non rendere tutto ancora più difficile, rifiutando addirittura l'ovvio - come aiutare lo straniero, i nostri stranieri, in Italia, in Europa, a costruire i loro luoghi di incontro e di culto.