Che cosa è successo a Milano? Le dimensioni della sconfitta del berlusconismo sono tali che non bastano i fattori locali o contingenti a spiegarla. Era scontata la straordinaria debolezza della candidatura della Moratti; largamente previsto l'effetto del "disagio" della base leghista per la figura del suo grande e ingombrante alleato, così come della candidata da lui imposta; più o meno calcolabile il peso che avrebbero avuto sull'esito elettorale scissioni e crisi all'interno dello stesso Pdl. Aggiungiamo a tutto ciò gli harakiri commessi con una campagna "di guerra" sconclusionata, dettata evidentemente da un panico di sconfitta, che ha accreditato ulteriormente Pisapia presso l'opinione pubblica cosiddetta moderata. Tutto ciò e altro ancora - ivi compresa l'intelligente condotta dello stesso Pisapia, che è riuscito a far "dimenticare", almeno per il momento, l'obsoleta forma ulivistica della sua coalizione - non basta a spiegare la straordinarietà dell'evento, da nessuno, checché ora se ne chiacchieri, prevista o prevedibile. Si tratta, potrebbe trattarsi dell'inizio del venir meno dell'appoggio reale, strutturale da parte di corposi, materiali interessi sociali e economici delle aree più forti del Nord al centrodestra berlusconiano-bossiano.
Del primo, ma eclatante, sintomo di rigetto del berlusconismo da parte di ampi settori di ceto medio e borghesia "nordista". Cartellino giallo o rosso? Su questo dovrebbe interrogarsi a fondo l'opposizione. Il risultato dimostra che la situazione era comunque matura per tentare un coraggioso "spariglio" e offrire fin d'ora all'elettorato tradizionale di centrodestra una soluzione di governo innovativa. Per l'intero Paese e non solo a Milano, ma a partire da Milano. Non si è voluto aprire questo laboratorio - scelte strategiche, buone non solo a vincere di quando in quando, ma a governare, sono state una volta ancora rimandate - e tuttavia la partita si è aperta. È probabile che la Lega renda ora esplicita la sua volontà di "superare" il ventennio berlusconiano e punti decisamente al passaggio del testimone a personalità come Tremonti.
Difficile che Bossi resti ancora sul carro perdente. È possibile che la batosta induca lo stesso Berlusconi a non opporre la sua più psicologica, che politica, repulsione al pensionamento. Insomma, un'accelerazione della crisi in atto da tempo nel centrodestra appare più che probabile. Ma essa passa attraverso almeno due condizioni.
La prima, elementare, è vincere a Milano. La seconda è che questa vittoria sia presentabile davvero all'intero Paese come l'inizio di una fase nuova, come la fine del lungo, estenuante aborto della seconda Repubblica, con energia e respiro costituenti.
Guai a dare per scontata a Milano l'automatica conferma dello straordinario risultato di domenica scorsa. È necessario annullare "in contropiede" l'unica arma efficace di cui la destra potrebbe disporre: chiamare a raccolta tutti i suoi elettori, indurli a tornare massicciamente al voto di fronte al "pericolo rosso". E questa volta anche la Lega, tradizionalmente poco propensa alle fatiche del doppio turno, potrebbe mobilitarsi.
Perdere Milano rappresenta una sciagura anche per lei. Altrimenti il recupero appare statisticamente del tutto improbabile.
Pisapia dovrà perciò presentarsi fin d'ora non come il candidato di una parte (e di quella parte che a livello nazionale non ha risolto nessuno dei suoi problemi programmatici e politici), ma come sindaco dell'intera città e mostrare di agire fin d'ora per formare una governance aperta, innovativa. Nessuna trattativa partitica per apparentamenti o compromessi. Un discorso, invece, alla città e al Paese che esprima la volontà di interpretare una fase nuova, oltre il decrepito bipolarismo che ci affligge, e la coscienza della crisi non solo del centrodestra, ma anche delle difficoltà di fondo dell'opposizione nell'elaborare una strategia alternativa credibile.
Questo discorso è destinato a incontrare nei fatti intenzioni e aspettative anche di quei settori di opinione pubblica che hanno votato Manfredi Palmeri e "nuovo polo", ampi o no che siano (ma certo, in prospettiva, molto più larghi di quanto appaia nel voto di oggi, e certamente decisivi domani in elezioni politiche). Così si blinda il risultato di Milano, ma soprattutto si gettano le fondamenta per la svolta nazionale. Ricordiamoci del '93 e delle cieche speranze che allora perdettero il centrosinistra, dopo il clamoroso en plein in tutte le grandi città. Elezioni per autonomie locali seguono sempre anche logiche autonome. Il voto a questo livello, politicamente parlando, è sempre anche più "libero". Pensare che lo schema-Milano, così come si è realizzato, possa a breve valere per l'intero Paese sarebbe cullarsi nell'ennesima illusione. Ma già per il ballottaggio si può dare, proprio a Milano, il segnale concreto di aver compreso la lezione della storia e, proprio perché forti del risultato, iniziare a costruire solidi rapporti con gli interessi, le componenti sociali, le correnti culturali che hanno segnato in questi ultimi anni la crisi del centrodestra. Questo lo si fa con proposte di riforma e di governo, non con compromessi tra oligarchie romanocentriche. Lo si fa parlando anzitutto di "questione settentrionale", che significa autentico federalismo, riforma della pubblica amministrazione, politiche industriali e per la ricerca, nuovo welfare "a immagine" dei giovani, della scuola, della ricerca.
Sul terreno delle politiche locali: liberalizzazione, riforma del sistema delle società partecipate, valorizzazione delle risorse umane interne, edilizia popolare, realistiche proposte per la soluzione dei drammatici problemi di traffico, mobilità, inquinamento. Non che tutto ciò manchi nei programmi. Ma occorre costruire governi e alleanze che marcino sulle gambe di uomini e partiti capaci seriamente di realizzarli. Il patrimonio del risultato di Milano si disperderebbe come neve al sole se il nuovo governo della città non operasse, fin dai suoi primi atti, in questa direzione. Lo ripeto: le dimensioni del successo di Pisapia sono dovute allo spostamento su di lui di un voto non astrattamente moderato, ma deluso per le mancate riforme e la cattiva amministrazione - un voto pronto a tornare al centrodestra , se "liberato" da Berlusconi (e Moratti) o al non voto, e se non si sentirà rappresentato dal centrosinistra al governo della città. Intelligenza politica vuole, invece, si faccia leva sul risultato milanese per scardinare definitivamente il sistema berlusconiano, allacciando con il centro rapporti non più soltanto tattici e occasionali, predisponendo un programma costituente davvero aperto a tutte le istanze culturali e politiche riformistiche, un programma che possa interessare anche forze come la Lega.
Ben difficilmente una "linea di condotta" di questo genere potrà esser fatta propria da chi, a ogni successo di tappa, pensa di aver vinto la guerra e si assolve o dimentica i colossali errori commessi e i limiti della sua iniziativa. Ma a Milano vi sono persone sagge e oneste, e il piccolo Cesare potrebbe davvero aver qui consumato il proprio tramonto.