Il primo ricordo, molto lontano, rimanda ai vasti corridoi del ministero del Tesoro in via XX Settembre, a Roma. All'epoca Luigi Bisignani, detto Bisi, 23 anni, si divideva tra il poco invidiabile turno di notte all'agenzia Ansa e l'influente incarico di portavoce di Gaetano Stammati, ministro del Tesoro nel terzo gabinetto Andreotti (1976-'78), monocolore dc passato alla storia come "governo della non sfiducia".
Tra marmi, vetri e specchi stile "L'anno scorso a Marienbad", quel ragazzo ironico e intelligentissimo si muoveva saltellando come un grillo; vederlo sussurrare all'orecchio del settantenne Stammati lo faceva apparire a suo agio più del canuto ministro, che pure vantava un passato di navigato grand commis, presidente della Banca commerciale e prima ancora Ragioniere generale dello Stato.
Si raccontava allora che ogni mattina Bisignani andasse a trovare prima Giulio Andreotti nello studio di piazza in Lucina e poi uno dei capi della massoneria, Licio Gelli, nel suo appartamento all'Excelsior: dava informazioni, ne riceveva in cambio, a sua volta le distribuiva altrove. È sempre stato questo il suo mestiere, il suo potere. Un tesoro gestito con accortezza, furbizia e buona memoria. Nella Roma dei misteri e dei mille poteri, del Papa e della massoneria, degli apparati e delle aziende pubbliche, tanta abilità e tanto sotterraneo sgomitare venivano visti con stupore e ammirazione, ma anche con l'ironico, cinico disincanto che pervade la città eterna come il rosso dei suoi tramonti. Tutti sapevano cosa Bisi facesse, ma nessuno sapeva cosa facesse precisamente.
Il secondo ricordo è di pochi anni dopo e riguarda la nomina di Lamberto Dini a direttore generale della Banca d'Italia: buon amico di Andreotti, Lambertow arrivava a Roma da Washington, dal Fondo monetario, e da subito si cominciò a dire che presto avrebbe preso il posto di Carlo Azeglio Ciampi, che pure era stato appena nominato governatore...
Si capì subito che non se ne sarebbe stato chiuso a studiare grafici e tabelle. Ma di questa città e dei suoi segreti non sapeva niente, e così si affidò a due ragazzotti di buone speranze che da subito presero ad assisterlo, informarlo, curargli le relazioni esterne: uno era Bisignani, l'altro un giovane funzionario della Banca d'Italia, Mauro Masi (che poi seguirà Dini a Palazzo Chigi, e vi resterà con vari incarichi anche con D'Alema, Prodi, Berlusconi...).
Così tutto cominciò, e come si vede dura tutt'ora. Ciò che Bisignani diventerà dopo, risorgendo pure dalle macerie della maxitangente Enimont, è cronaca di questi giorni e oggetto delle clamorose indagini del pm Woodcock (i servizi, da pag. 36); ma ancora non possiamo dire se la vicenda debba essere letta con il codice penale alla mano o se rientri in quella terra di mezzo della politica che è il lobbying alla romana, reso ancora più indispensabile da quando l'intero ceto politico della Prima Repubblica è stato spazzato via da una corte padronale senza classe dirigente né memoria, spinta ad aprire il suo ufficio risorse umane in piazza Mignanelli.
Reati a parte - sui quali si pronunceranno Procure e Tribunali - sappiamo però fin d'ora che il sistema Bisignani nasconde un'anomalia, una magagna assai pericolosa. Certo, non c'è paese al mondo in cui le lobby non siano legalizzate e lo spoil system, insomma la lottizzazione, istituzionalizzato. Ma allo scadere di un'amministrazione, alla successiva tornata elettorale vanno a casa tutti, premier e ministri, leader di partito e capi azienda, giudici e grand commis. Via, si ricomincia, si cambia il motore, a garanzia (democratica) del buon funzionamento della macchina. In Italia, no.
In Italia - come dimostrano quei due episodietti di 35 anni fa - lobbisti e clienti non cambiano, si riciclano, mutano pelle e casacca, ma sono sempre gli stessi, garanti di un sistema che si vorrebbe perenne e immutabile. E che invece si va sfarinando. Più che le manette, dovrebbero scattare indignazione e voglia di cambiamento. Basta. Comunque vada a finire questa storia, certi nomi non vorremmo più sentirli, certe facce non più vederle.